Recensione the killer inside me regia di Michael Winterbottom USA 2010
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Recensione the killer inside me (2010)

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locandina del film THE KILLER INSIDE ME

Immagine tratta dal film THE KILLER INSIDE ME

Immagine tratta dal film THE KILLER INSIDE ME

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Immagine tratta dal film THE KILLER INSIDE ME

Immagine tratta dal film THE KILLER INSIDE ME
 

"Il guaio di crescere in una piccola città è che tutti pensano di sapere chi sei".

Tratto dall'omonimo libro di Jim Thompson, "The Killer Inside Me" narra la storia di Lou Ford (Casey Affleck), un giovane e rispettato vicesceriffo di Central City, una cittadina del Texas all'inizio degli anni Cinquanta. Il padre di Lou era stato il solo medico della cittadina, godendo di buona reputazione e della stima della collettività. Lou ha scelto un lavoro scarsamente remunerato, ma al servizio della comunità. Tutti lo stimano, lo reputano gentile e ben educato, gli chiedono favori e si fidano di lui al punto di mettere in mano sua le loro vite e quelle dei loro figli. È per questo motivo che lo sceriffo Bob Maples (Tom Bower), sotto la pressione del potente uomo d'affari Chester Conway (Ned Beatty), chiede a Lou di "invitare" Joyce Lakeland (Jessica Alba), una prostituta che si intrattiene col figlio di Conway, a lasciare la città. Lou, invece, intratterrà una relazione con la ragazza dimostrando di avere una naturale inclinazione per il sadismo e il più totale disprezzo per la vita umana.

Il libro di Thompson aveva già avuto una trasposizione cinematografica nel 1976, sceneggiata da Edward Mann e diretta da Burt Kennedy, che aveva affidato il ruolo di Ford a Steacy Keach. Ma a parte essere la trasposizione del medesimo romanzo, i due film non hanno nulla in comune. La sceneggiatura di John Curran non si basa su quella di Mann, ma è tratta direttamente dall'opera letteraria di Thompson, quindi il film di Michael Winterbottom non deve essere considerato un remake del film di Kennedy.

Questa nuova pellicola di Michael Winterbottom si dimostra fin dai titoli di testa un'opera elegante e squisitamente demodé. I titoli scorrono su una serie di immagini statiche delle ambientazioni e dei protagonisti della vicenda, accompagnate dalla celeberrima canzone "Fever", che, benché sia stata scritta nel 1956 e quindi quattro anni dopo la pubblicazione del romanzo di Thompson, ben caratterizza e rappresenta quegli anni.

Winterbottom sotto il profilo visivo e Curran sotto il profilo narrativo hanno deciso di realizzare un film all'insegna dell'iperbole. Questa scelta ricorda assai da vicino quella compiuta dai fratelli Coen nell'ottimo "Non è un paese per vecchi" ("No Country for Old Men", 2007). Ma se i Coen hanno realizzato un capolavoro giocato quasi esclusivamente in sottrazione, ossia con l'iperbole che agisce per difetto, in "The Killer Inside Me" troviamo soluzioni narrative sature e a tratti eccessive in perfetto contrasto con altre di un minimalismo estremo, assolutamente confacente a quello che era lo stile letterario di Jim Thompson.

Si sconsiglia la lettura di quanto segue a chi ancora non avesse visto il film poiché se ne riveleranno tutti i principali colpi di scena incluso il finale.

La storia ruota intorno al protagonista Lou Ford come una porta sul proprio cardine, ma in nessun modo questo personaggio è stato descritto in modo affascinante. Non si assiste alle gesta di un eroe negativo o alla magnificenza di quei criminali dal carattere impetuoso e tormentato che hanno creato il mito letterario del genere noir e dell'hard-boiled. Non c'è nessun tentativo di instaurare un rapporto empatico fra il pubblico e il protagonista, né si cerca di rendere quest'ultimo carismatico. Le motivazioni del suo agire sono spiegate, ma sempre in termini minimali evitando accuratamente dall'attribuire a Lou Ford qualsiasi alibi o qualsiasi giustificazione.
Lou Ford suscita disprezzo ed antipatia: è odioso, meschino, strafottente, egocentrico, ingrato, sadico, freddo, ipocrita, bugiardo, violento. In lui ha germogliato il seme malvagio di suo padre, che con poche battute viene definito come un borghese ipocrita che nasconde un temperamento crudele dietro un'immagine sociale rispettabile e perbene. E questi sono soltanto alcuni aspetti del suo profilo.
La storia di Lou è ricostruita attraverso dei rapidi flashback, ma, come accennato, questi non servono a giustificare le sue azioni, bensì a dimostrare che egli è sempre stato così, solo che, vuoi per superficialità, vuoi per ipocrisia, nessuno se ne era mai reso conto o aveva avuto il coraggio di denunciarlo, come nel caso del fratellastro Mike.
Certo si lascia scegliere allo spettatore di capire il perché si siano verificate determinate situazioni. Per esempio è comprensibile che un padre, che ha dimostrato di essere sufficientemente generoso da adottare un orfano, figlio di vecchi amici di famiglia, dando al proprio figlio Lou, rimasto a sua volta orfano di madre, un fratellastro che gli faccia compagnia, abbia un atteggiamento protettivo nei confronti del figlio. Meno comprensibile è invece il fatto che Mike accetti di essere sbattuto in prigione per lo stupro di una bambina di cinque anni che "lo ha riconosciuto" e che "avrebbe riconosciuto chiunque le fosse stato messo davanti", come precisa Lou davanti all'ambiguo sindacalista Joe Rothman (Elias Koteas). È anche vero che Lou esercita un forte carisma sulle persone che lo circondano e queste sembrano sempre disposte a proteggerlo e a giustificarlo.

Interpretato benissimo da Casey Affleck, che con la sua faccia pulita e quella voce infantile e lagnosa (assolutamente fastidiosa nella versione in lingua originale) costruisce un personaggio ai limiti di qualsiasi tollerabilità, Lou è un disaffettivo e un sociopatico.
È da notare anche come Lou Ford, malgrado la carica di vicesceriffo, non porti con sé nessuna arma da fuoco, affermando candidamente che a Central City non ci sono "molte carogne". E questo ci porta ad analizzare l'esercizio della violenza e la sua rappresentazione cinematografica. Fin dai primi minuti di film, Ford si dimostra sadico e brutale. Gli piace prendere le donne a schiaffi e ancora di più ama frustare le loro natiche con la propria cintura e coprire la loro faccia mentre fanno sesso, rendendole anonimi oggetti di piacere. La sopraffazione fisica e il senso di dominazione lo eccitano e si tratta di un'eccitazione che trae le proprie origini nell'infanzia di Lou e in quell'iniziazione sessuale che il bambino ha subito restandone per sempre contaminato.
Quando si accende un fuoco, bisogna saperlo spengere. Lou Ford all'inizio del film era come un fuoco che stava languendo sotto la cenere, ma il suo incontro con Joyce Lakeland è stato "come se il vento avesse preso a soffiare su un fuoco che sta per morire", innescando una nuova spirale di violenze e di omicidi.

La violenza che Lou esercita è brutale quando coinvolge la sua sfera emotiva, mentre è fredda e sistematica quando è dettata dal conseguimento di un fine ulteriore. Ed è solo su questa distinzione che deve essere affrontata l'analisi degli omicidi da lui commessi nei confronti delle donne e nei confronti degli uomini.
Quando Lou massacra Jessica Alba le ripete più volte che la ama. Da notare che questa scena in Italia è stata vittima di ben due minuti di censura, quindi il pubblico italiano non ha assistito all'incredula Joyce dal volto tumefatto che domanda al suo uomo perché le stia facendo subire quella violenza, né a lui che le risponde che le dispiace e che la ama.
Tanto per mantenere alta una vena polemica contro la pratica della censura, sia questa il risultato delle scelte di commissioni a ciò preposte, sia l'operato di una deliberazione di autocensura da parte della distribuzione o della produzione, chi scrive suggerisce che, se proprio non si vuole fare a meno di stendere un velo oscurantista di fronte a determinati fatti di violenza, sarebbe più opportuno che si incominciasse a sopprimere tutti quei programmi televisivi che inzuppano il pane nei fatti di cronaca e in drammi umani reali, piuttosto che andare a mutilare l'opera, discutibile o meno, degli artisti.

Fatta salva questa digressione sulla censura, ritorniamo al pestaggio inflitto da Ford a Joyce. Non c'è nessuna motivazione dietro quel gesto se non l'annientamento dell'oggetto del proprio amore. Ma, si ricordi, che stiamo parlando dell'amore di un disaffettivo, che per definizione è incapace di nutrire veri sentimenti. Come nell'esempio letterario di Derek Van Arman, il disaffettivo non può comprendere i sentimenti, così come un cieco dalla nascita non sarà mai in grado di comprendere una distinzione cromatica. E se ancora l'omicidio di Joyce può rientrare in un quadro (stupido!) di un disegno criminale, ancora più scevro di necessità è l'omicidio, altrettanto brutale, di Amy (Kate Hudson), la fidanzata di Ford. Si badi bene, però, a non confondere l'assenza di necessità con l'assenza di giustificazione dell'azione. Non si deve cadere nell'inganno di quella parte della critica che ha affermato superficialmente che si tratta di omicidi e di violenze gratuite. L'omicidio di Joyce serve a colpire la famiglia Conway, mentre quello di Amy serve a incriminare e a far uccidere il vagabondo ricattatore (Brent Briscoe). Allo stesso modo l'assassinio di Elmer (Jay Ferguson) e quello del giovane Johnny Pappas (Liam Aiken) hanno una valenza teleologica.

L'occhio attraverso il quale Winterbottom riprende ed espone le azioni di Ford è freddo e distaccato. Oltre a non esserci nessuna esaltazione degli atti del protagonista, né empatia nei suoi confronti, la regia non esprime neppure nessun giudizio, limitandosi a raccontare.
A questo punto soffermiamoci un istante sulle accuse di misoginia che si sono scatenate contro Michael Winterbottom e, indirettamente, contro l'opera di Thompson. Queste accuse da un lato si muovono contro le scelte registiche adottate durante gli omicidi di Joyce e di Kate. Abbiamo parlato precedentemente di uno stile narrative all'insegna dell'iperbole. In questi due casi si tratta del tipo descrittivo saturo che si pone in antitesi con i sopraccitati omicidi dei due uomini: fulmineo quello di Elmer, omesso quello di Pappas. In entrambi gli stili descrittivi, tuttavia, si segue una schema minimalista ed essenziale. È vero che il pestaggio di Joyce dura oltre due minuti, ma non si tratta di una ricercatezza sadica o truculenta, bensì di semplice brutalità, così dura da apparire vera. Altrettanto si può dire per la morte di Kate che è perpetrata con due pugni e due calci ben assestati, ma che lascia intercorrere un lungo lasso temporale fra i primi e i secondi, durante il quale si vede la sofferenza di un corpo in agonia e l'indifferenza di un carnefice che, mentre aspetta il colpevole da incriminare, si veste con cura e legge il giornale. Fortemente emblematica la ripresa della mano tremante di Amy che cerca di toccare lo stivale di Lou, che invece si scansa con quella stessa indifferenza con cui la sta uccidendo.
In questo non c'è nessuna misoginia, ma naturalmente tali accuse non si limitano alla violenza (di)mostrata durante gli omicidi, ma a tutta la costruzione di questi due (potremmo in realtà dire tre) personaggi femminili. La terza sarebbe la ragazza (Caitlin Turner), che si vede in un flashback di circa un minuto, che ha iniziato Lou al sadismo.
Queste donne sono descritte con apparente superficialità, avide di piacere sessuale, elementari e primitive nel modo di vivere. Ora è bene chiarire fin da subito che il fatto che queste donne non disdegnino una sculacciata o qualche sferzata di cinghia, non le rende né delle potenziali vittime né delle donne perverse. Qui si entra in una dialettica estremamente verista e verisimile che ben si guarda dal descrivere la donna come l'angelo del focolare o come una figura di purezza illibata, priva di desiderio sessuale e vittima del maschio rozzo e volgare. E meno male, perché queste sarebbero state in vero delle autentiche descrizioni misogine! Queste donne sono carnali. Capiscono i gusti del loro uomo e godono nel compiacerlo. Non c'è nessun parallelismo fra un gioco erotico ed un autentico massacro come quello subito da Joyce. Inoltre, chi ha mosso le critiche, vuoi per ignoranza, vuoi per ipocrisia, dimentica o finge di dimenticare che nella dialettica del sadomasochismo il controllo appartiene alla vittima e non al dominatore. È la vittima che sceglie la persona da cui vuole essere dominata e che acconsente a mettersi nelle sue mani.

La regia di Michael Winterbottom è tecnicamente ineccepibile e ben si sposa con la notevole fotografia del suo ormai sodale direttore della fotografia Marcel Zyskind. Non ci sono particolari virtuosismi visivi e le luci sono sempre molto realistiche. Uno stile complessivamente scarno, distaccato e descrittivo che evita a livello visivo quel coinvolgimento che è stato sapientemente evitato a livello narrativo. Si tratta di un film che non coinvolge, che non trascina, ma che si limita a raccontare.
Ed è qui che probabilmente risiede la causa dell'insuccesso commerciale della pellicola, che si è dimostrata un vero flop (costata circa 13 milioni di dollari, ne ha incassati poche centinaia negli Stati uniti e circa 3 milioni in tutto il mondo, non arrivando a coprire neppure la metà del budget). Il distacco narrativo e visivo, l'assenza di personaggi in cui il pubblico si possa identificare, l'assoluta antipatia del protagonista (e si ricordi che, come nel romanzo, è lui a raccontare la storia) sono tutti elementi che assolutamente non intrattengono e non divertono il pubblico.
Tuttavia, è bene constatare che è vero che non si tratta di un film divertente né di una pellicola di intrattenimento, ma che nemmeno ha mai preteso di essere tale.
Il film, inoltre, anche se solo attraverso accenni appena sussurrati, affronta tantissime tematiche: il fallimento di una generazione stravolta dalla seconda guerra mondiale e che non è stata in grado di reggere il passo con la conseguente ricostruzione economica e sociale del mondo (non di una sola nazione); il braccio di ferro fra i sindacati che ormai sono i proprietari della forza lavoro e gli imprenditori proprietari dei capitali; la sicurezza sul lavoro; il razzismo; la lotta di classe nello schema della mobilità sociale; il perbenismo di facciata e la repressione delle pulsioni e degli istinti. Si assiste solo a diversi gradi di cattiveria dove l'unico personaggio ad uscirne pulito è lo sceriffo Maples, che tutela Lou come fosse suo figlio e che non riesce a stare al passo con i tempi al pari dello sceriffo Bell di "Non è un Paese per Vecchi".

Parliamo anche brevemente del conflitto fra le Istanze Psichiche Freudiane la cui alterazione arriva a produrre un uomo senza coscienza, o almeno senza una coscienza sociale, come Lou Ford. È chiaro che se l'agire di Lou Ford è inaccettabile a livello sociale, esso per lui non è né biasimevole, né riprovevole. Lou non ha rimorsi e non vive rimpiangendo le azioni commesse. Egli è il frutto della società in cui è nato e cresciuto, di cui ha subito la contaminazione e l'influenza, seguendone gli schemi nel bene e nel male. Lou Ford rappresenta quella società e tutto quel male che essa contiene e che vorrebbe esorcizzare. Non si può certo reputare casuale che la Bibbia, all'interno della quale sono nascoste le foto sadomaso della ragazza (sempre la Turner), sia posizionata accanto ad un libro di Freud.

Gli attori sono fantastici.
Di Casey Affleck abbiamo già detto che dà vita ad un personaggio assolutamente spregevole. Kate Hudson e Jessica Alba sono assolutamente credibili nei loro ruoli. Perfetto Ned Beatty nel ruolo del "cattivo" Conway, struggente Tom Bower nel ruolo del "buon" Bob Maples, convincente e carismatico Simon Baker nel ruolo del narcisistico procuratore distrettuale Howard Hendricks, impagabile Bill Pullman nell'istrionico Billy Boy Walker. Un discorso a parte merita Elias Koteas che benché sia un attore bravissimo, carismatico e perfezionista, ultimamente sembra più avviato ad interpretare Robert De Niro piuttosto che i ruoli che gli sono assegnati. Alcune sue scelte interpretative, infatti, sembrano ricalcare da vicino alcuni dei più celebri personaggi interpretati da Robert De Niro, senza però dimostrare nessun intento citazionista.

Interessante e ben integrata alla trama anche la scelta delle canzoni che accompagnano alcune situazioni del film. La citata "Fever" termina con le parole: What a lovely way to burn. E il fuoco, cui si paragona Lou all'inizio del film, sembra essere quello stesso fuoco scatenato dalla febbre della canzone. Inoltre, il fuoco è anche l'elemento epuratore che cancella il passato. Il fuoco arde le fotografie della ragazza che ha deviato Lou; il fuoco distrugge Lou e la sua casa paterna, trascinando via con sé anche tutte le principali cariche cittadine, ossia consumando anche tutti i referenti di quella società rappresentata da Central City.
Altrettanto importante è la canzone di Spade Cooley "Shame on you" di cui citiamo una strofa:

Shame, shame on you
Shame, shame on you
Took and play your little game
You'll find out who was to blame
Hide your face, shame on you

Questa canzone è cantata da Lou e da Maples, che si sbagliano sostituendo lo "shame on you" con "shame on me", precede l'omicidio di Kate, accompagna l'esplosione di casa Ford e scorre sui titoli di coda. Essa sembra essere direttamente dedicata a Ford e agli altri personaggi che si trovano con lui durante l'epilogo.

È un peccato che un film tecnicamente ineccepibile ed artisticamente di altissimo livello si dimostri un'opera non del tutto riuscita.
Forse la causa è proprio l'eccessivo distacco mantenuto dai due autori principali del film, ossia il regista e lo sceneggiatore, che però hanno svolto comunque un lavoro egregio.
Forse lo stile minimalista ha reso difficile seguire alcuni passaggi della pellicola, tuttavia chi scrive non reputa che vi sia nessun difetto narrativo né comunicativo in quest'opera, che disturba quando vuole disturbare e che racconta tutto quello che intende raccontare.
Forse uno stile narrativo meno "raccontato" avrebbe potuto essere più coinvolgente, ma avrebbe parzialmente tradito tanto lo spirito del film, quanto quello del libro.
Un altro limite potrebbe risiedere anche nell'alto livello qualitativo e nel successo ottenuto dall'opera letteraria da cui il film è tratto.
Forse è un film troppo demodé, difficile da inquadrare in un genere preciso o semplicemente una pellicola "fuoriposto" così come è fuoriposto Lou Ford all'interno di una società che vuole cambiare.
Tuttavia, i film non si fanno con i forse. Questo è un film che non ha niente di compromissorio, un film da prendere o lasciare.

"Un'erbaccia è una pianta fuoriposto!
Se trovo una Malva Rosa in un campo di grano è un'erbaccia, se la trovo nel mio giardino è un fiore
".

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Recensione a cura di Carlo Baldacci Carli - aggiornata al 07/12/2010 11.08.00

Il contenuto di questo scritto esprime il pensiero dell'autore e non necessariamente rappresenta Filmscoop.it

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