la vergogna regia di Ingmar Bergman Svezia 1968
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la vergogna (1968)

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locandina del film LA VERGOGNA

Titolo Originale: SKAMMEN

RegiaIngmar Bergman

InterpretiLiv Ullmann, Max von Sydow, Sigge Fürst

Durata: h 1.43
NazionalitàSvezia 1968
Genereguerra
Al cinema nel Novembre 1968

•  Altri film di Ingmar Bergman

Trama del film La vergogna

Studio psicologico di Bergman sulle reazioni umane in situazioni di guerra.

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Voto Visitatori:   7,44 / 10 (8 voti)7,44Grafico
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Voti e commenti su La vergogna, 8 opinioni inserite

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Filman  @  24/11/2020 13:15:48
   7½ / 10
SKAMMEN (Vergogna) è la guerra vista attraverso gli occhi di una coppia, una storia d'amore dolce, semplice e genuina che sprofonda a mano a mano in un incubo. Le scene di violenza esplicita e psicologica sono colpi inflitti con una potenza visiva e sensoriale che solo Ingmar Bergman e pochi altri sanno ottenere. Non solo il film è di guerra, parlando dell'importanza della vita e della libertà attraverso la distruzione delle stesse, ma prova a creare un parallelismo tra i due argomenti, provando a delineare la metafora di un rapporto tra marito e moglie in crisi.

kafka62  @  26/01/2018 11:53:15
   8 / 10
Messe momentaneamente da parte le problematiche religiose e metafisiche, Bergman ha affrontato, in piena epoca sessantottesca e col conflitto vietnamita ancora in corso, l'arduo tema della guerra; e siccome dal maestro svedese ci si attende sempre e comunque il messaggio illuminante e definitivo, è parso inevitabile che La vergogna suscitasse alla sua uscita polemiche aspre e feroci. In particolare non sono state perdonate a Bergman le apparenti dichiarazioni di neutralità presenti nei dialoghi ("… con questa guerra che dura da tanto… non è facile avere delle idee politiche, dice ad esempio Eva all'intervistatore), ed in generale il qualunquismo dei protagonisti, ignorando con colpevole leggerezza che i personaggi di un'opera d'arte non sono da considerare automaticamente come i portavoce dell'ideologia dell'autore, la quale emerge invece, magari in forma contraddittoria e problematica, da un'analisi critica e non superficiale dell'opera stessa.
Così, ne La vergogna, Eva e Jan sfuggono la realtà, autoesiliandosi nella loro casa-rifugio (ancora la bergmaniana isola di Faro) e facendo di tutto per non ricordare che c'è una guerra in corso (più lui di lei, a dir la verità); ma lungi dal fare la loro apologia, il regista dimostra (e questo è l'unico, autentico significato da dare al film) che la guerra conduce in ogni caso l'individuo all'abbrutimento e alla dissoluzione morale (alla fine Eva tradirà il marito e Jan ucciderà con fredda determinazione due esseri umani). Quando infatti la guerra irrompe nella vita dei due coniugi e giunge il momento delle scelte e delle responsabilità, l'apoliticismo e la voglia di non prendere partito li rende manovrabili, strumentalizzabili, facile preda degli impulsi più turpi, ancorché dettati da un confuso e incontrollato istinto di sopravvivenza. La mancanza di un ordine etico in grado di sovrintendere alle loro esistenze e la ricerca di una soluzione che il più delle volte viene a coincidere con la fuga (ad ogni costo e con qualsiasi mezzo) determina l'inesorabile sconfitta della coppia.
La tematica dell'uomo sbalestrato dalle tempeste della Storia non è certo nuova al cinema (basti pensare al primo Wajda o, in chiave di commedia, al comenciniano Tutti a casa), ma Bergman la astrattizza, la decontestualizza, rendendo il messaggio se possibile ancor più universale e totalizzante, valido per ogni epoca e condizione storica. Sappiamo infatti che c'è una guerra, ne vediamo gli effetti sotto forma di distruzione e morte, ma la nostra conoscenza si esaurisce qui: nulla ci viene detto su quali siano gli eserciti in lotta, sull'epoca in cui si sviluppano gli avvenimenti o sulle motivazioni e gli interessi in gioco. Gli elementi realistici passano in secondo piano, subordinati alla creazione di un clima che diventa sempre più onirico e irreale man mano che il film va avanti. La guerra rappresentata da Bergman perde in tal modo le sue potenziali connotazioni sociali e politiche, finendo per diventare un orribile incubo senza causa che avviluppa implacabilmente i personaggi. "Certe volte mi sembra che sia tutto un sogno – confessa Eva al marito – ma non un sogno mio, un sogno di un altro e del quale io faccio parte. Che avverrà quando chi ci ha sognato si sveglierà e si vergognerà del suo sogno?". A questo proposito, bisogna dire che la progressione stilistica del film è ammirevole: alle sequenze ordinate e compiute dell'inizio si sostituiscono inquadrature sempre più brevi e indifferenziate, legate tra loro non più da una logica narrativa, ma da fondu scuri che costituiscono altrettanti elementi di rottura dell'unità filmica. L'atmosfera diventa rarefatta ed angosciosa, i paesaggi illusori e irriconoscibili nella loro desolata scabrosità, fino a giungere alla splendida scena conclusiva – vero e proprio exploit surrealistico – in cui l'imbarcazione di Jan ed Eva viene a trovarsi circondata da una distesa di cadaveri galleggianti.
Bergman non rinuncia con questo al suo cinema psicologico. Infatti, il rapporto dei personaggi con la realtà della guerra si riverbera puntualmente all'interno della vita di coppia. I due sono ritratti all'inizio in una situazione di equilibrio fittizio (topos classico del cinema bergmaniano, momento ideale da cui partire per poi fare esplodere impietosamente le crisi latenti). Educati, premurosi e apparentemente innamorati, Jan ed Eva lasciano però trasparire nei loro reciproci rapporti delle microscopiche incrinature, degli impercettibili cambiamenti d'umore, rinfacciamenti subito soffocati o accuse sottili pronunciate col sorriso sulle labbra (Liv Ullman è in questo un'attrice perfetta, algida, dura e controllata, capace di grandi crudeltà psicologiche ma anche, a esser sinceri, degli unici momenti di vera umanità del film). La crisi individuale (determinata, come abbiamo visto, dall'esposizione diretta agli effetti devastanti della guerra) si accompagna fatalmente alla crisi di coppia. I due protagonisti si allontanano l'uno dall'altra, si tradiscono e si umiliano a vicenda, non hanno più alcun motivo di rimanere insieme ma continuano a farlo unicamente per disperazione, ferocemente avvinghiati per una sorta di arcana legge di sopravvivenza. Bergman li ritrae spesso viso contro viso, in primissimo piano, ma la comunicazione è ormai definitivamente preclusa, come ben intuisce Eva quando si chiede con angoscia: "Cosa sarà di noi se non riusciamo più a parlarci?".
Con La vergogna Bergman riesce a coniugare le tematiche sovraindividuali (la guerra, le responsabilità dell'individuo nei confronti della società in cui vive, più allusivamente il ruolo dell'arte come possibile antidoto alla barbarie) con quelle più intime e personali (non è estraneo a questo discorso una sorta di nostalgico desiderio di recupero del passato, come dimostra il sogno iniziale di Jan e la scena del carillon in casa di Lobelius). A tal fine, il regista svedese abbandona provvisoriamente l'armoniosa geometria dei film precedenti, utilizzando al suo posto uno stile che ricorda un po' l'audace nouvelle-vaguismo dei primi Tarkovskij e Wajda: découpage spezzettato (lo abbiamo già visto più sopra), con ellissi più ardite del solito e dissolvenze che riducono le singole sequenze (quanto meno nella seconda parte) a micro-unità diegeticamente indipendenti, grande attenzione al montaggio, uso insolitamente rilevante della macchina a mano, alternarsi rapsodico di campi lunghi e primi piani, avvicendamento di registri narrativi diversi (si prenda la divertente scenetta in cui Jan cerca invano di uccidere una gallina col fucile), ricorso a una colonna sonora in cui la musica è assente e i rumori assurgono a componente filmica privilegiata, e persino lo sfruttamento di due cineprese per consentire agli attori di improvvisare i dialoghi. Tirate tutte le somme, il risultato è davvero alto: La vergogna è infatti, tra i film del grande regista svedese, se non quello meglio sviluppato tematicamente (la sua irrisolvibile ambiguità è comunque più un pregio che un difetto) o quello più apprezzabile stilisticamente, sicuramente uno dei più stimolanti e moderni.

Gruppo COLLABORATORI SENIOR elio91  @  18/03/2012 23:15:22
   8 / 10
Non l'ho trovato per nulla un minore di Bergman. Si inserisce tranquillamente nel filone (pure sterminato) della sua produzione più riuscita.
L'opera appartiene al periodo sperimentale del regista svedese, e si vede. Se qualcosa si inceppa e il film non funziona come dovrebbe è a causa di una certa macchinosità che appesantisce fin troppo la pellicola, già forte di suo.
Ma la splendida e agghiacciante metafora dei rapporti umani in tempo di guerra è attuale sempre e comunque, la violenza psicologica colpisce e quel finale in barca col mare pieno di cadaveri colpisce l'immaginario collettivo con forza inusuale.

Complici come sempre due attori affiatatissimi come Von Sydow e la Ullmann: inizialmente fragile e insicuro lui, quasi bonario e che si trasforma in spietato animale incurante perfino di chi ha di fianco. Alla ricerca di un figlio che non arriva lei, neanche nei sogni.
Desolante in tal senso il messaggio ultimo de La Vergogna, con un'umanità che non riesce più a comunicare e che la violenza di una guerra (contro chi o cosa non ha nessuna importanza) separa per sempre.

Dato che ultimamente mi sto appassionando sempre più ad Eduardo De Filippo azzardo un parallelo neanche tanto campato per aria nei temi (ovviamente non nello stile) di due autori tanto lontani quanto vicino come lo svedese e il napoletano: entrambi sono giunti alle stesse conclusioni parlando degli stessi argomenti (famiglia, incomunicabilità, guerra incombente).
Bergman, esplicito come suo solito e puro cinematografaro, l'ha mostrato con esplicita ruvidezza e rara crudeltà.
Siamo uomini e di questo ci dobbiamo vergognare.

Gruppo COLLABORATORI JUNIOR pier91  @  19/02/2012 13:55:51
   7½ / 10
"Mi sembra quasi di stare in un sogno. Ma non in un sogno mio, in un sogno di qualcun altro. Cosa accadrà quando il sognatore si sveglierà e ne proverà vergogna?"
Che splendida metafora, sebbene molto, forse troppo difficile. In effetti il vero neo de "La vergogna" non è la superficialità, come di primo acchito appare, ma la complessità. Si intuisce comunque l'intenzione, altissima, di rendere labile il confine tra respiro corale e respiro intimista. Dunque la guerra, evento invadente e volgare, assume i tratti di un dramma individuale. Non mi riferisco soltanto all'odio che Jan instilla dentro di sé, ma anche alla triste e mediocre semplicità dei desideri di Eva. Vuole avere una bambina: questo è il suo tutto. Le è stata sottratta la memoria dei sogni più temerari, quelli improbabili che pure rendono vivida l'esistenza. "(la bambina) si stringeva forte a me, e per tutto il tempo sapevo che dovevo ricordare qualcosa che qualcuno aveva detto e io avevo dimenticato".
Non tutto fila come dovrebbe, Bergman stesso lo ammise, ma la sequenza della barca incagliata fra i cadaveri vale da sola la visione.

Gruppo REDAZIONE amterme63  @  13/01/2011 23:59:58
   7 / 10
Con questo film Bergman ha voluto misurare l'impatto della guerra sull'esistenza di esseri umani particolari, quali quelli ultra-sensibili, riflessivi e iper-(auto)coscienti (in genere artisti) tipici della sua cinematrografia degli anni '60.
Finalmente in un film di Bergman sembra entrare la realtà storica e contingente; invece anche stavolta il punto di vista è generalistico e quasi astratto ed è sempre quello esistenzialista.
L'epoca in cui uscì il film (1968) era iperpoliticizzata ed era quasi un dovere per un artista-intellettuale (categoria sugli scudi a quel tempo) prendere posizione su temi scottanti come la rivolta giovanile e la Guerra del Vietman. Bergman coraggiosamente si tiene fuori dalle dispute del momento e ci regala un film che possa essere comprensibile in tutte le epoche. Infatti il ritratto che fa dell'impatto della guerra sulla vita quotidiana di persone che vivono in un contesto civile, tranquillo e isolato è a dir poco dirompente e comprensibilissimo anche adesso. Infatti la prima cosa che viene in mente guardando questo film è la guerra in Bosnia. Si comprende benissimo cosa possa essere successo, dall'oggi al domani, in quella terra martoriata. Veramente ci si sente delle nullità, degli esseri senza difesa in balia dell'arbitrio altrui. Una cosa terribile e questo film riesce benissimo a trasmettere questa impressione, anche senza calcare troppo la mano.
Bergman va oltre a questo ritratto negativo e dimostra che circostanze sfavorevoli determinanto pesantemente la condotta individuale anche dell'essere più pacifico e arrendevole. In "L'ora del lupo" aveva mostrato come solitudine, isolamento e ossessione spingano l'animo umano a perdersi nelle spire dell'irrazionale; qui ci mostra impietoso come la lotta per la sopravvivenza (ma anche la gelosia, il senso di proprietà violato) ci spinga a tirare fuori il peggio di noi stessi, ci porti a fare cose che non immagineremmo mai di fare (tema ripreso da Peckinpah con "Cane di paglia").
In un'epoca di forte impegno civile come quella del '68 si capiscono le polemiche suscitate dal ritratto di intellettuali disimpegnati, passivi, isolati, chiusi nelle loro diatribe esistenziali. Un messaggio molto negativo e che non lascia grandi speranze non era quello che all'epoca ci si attendeva da un "intellettuale". Guarda caso tutto questo è invece assai più comprensibile adesso in tempo di sfiducia e nichilismo.
Questa è la parte più interessante e "moderna" del film. Le tecniche di ripresa, le scenografie e la recitazione come al solito sono di alto livello (qui Bergman privilegia i campi lunghi e le panoramiche, tenendo lo spettatore distaccato da ciò che vede e quindi più raziocinante).
Per il resto il film è decisamente lento e pesante da seguire. Si sente stanchezza e ripetitività nel trattamento dei temi (la situazione ritratta è molto simile a quella di "L'ora del lupo"), inoltre il repentino cambiamento del protagonista rimane sinceramente un po' inspiegato e poco plausibile e comunque non troppo approfondito.

Ivs82  @  16/08/2006 01:52:50
   6 / 10
Girato nella tetra e desolata isola di Fårö, "La vergogna" può essere inquadrato nel cosiddetto "periodo sperimentale" del regista. Se infatti guardiamo alla sua opera potremmo ritenere insolita o quantomeno azzardata la scelta di trattare un tema come la guerra; ma saremmo sciocchi se ci fermassimo alle apparenze, rifiutandoci di trovare a questo tassello una collocazione nel complesso e affascinante arazzo bergmaniano.
Dico questo perchè il confilitto, che solo apparentemente è un tema fuori dalle corde del regista, rappresenta un efficace espediente narrativo per trattare temi tipici del suo cinema: l'importanza della coppia (vista spesso come luogo di scontro e infelicità ma alla quale nessuno può rinunciare), il ruolo dominante del sesso femminile, l'impotenza di fronte alle disgrazie, la precarietà della felicità, l'impatto traumatico che certe esperienze possono avere sulla psiche e sulla capacità di relazionarsi col mondo esterno.
Ed è soprattutto su quest'ultimo aspetto che viene focalizzata l'attenzione del racconto; esso rappresenta infatti il punto di partenza e di arrivo dell'intera vicenda: a Bergman non interessano nè la dinamica della battaglia nè il corso della Storia ( gli invasori e la resistenza non hanno un nome nè sono inquadrati all'interno di un qualsivoglia contesto storico/politico), ma piuttosto i rovinosi effetti psicologici e comportamentali che porta con se ogni guerra. Un rapporto causa/effetto che genera patologie devastanti e fa emergere il lato peggiore, nascosto e per certi versi orribile dell'animo umano: basti pensare al protagonista che da uomo gentile, equilibrato e anche un pò vigliacco, diventa un essere arido, privo di sentimenti e mosso quasi esclusivamente da istinti primordiali.
Una visione estremamente pessimistica e desolante che fa uscire come perdenti tutti i protagonisti, nessuno escluso. Essi sono infatti trascinati e risucchiati nel turbinio di violenza e atrocità che il destino ha messo loro davanti: non c'è alcuna possibilità di salvezza e anche la pace (da intendere anche come pace interiore) rimane soltanto un'utopia, come testimonia la splendida sequenza finale, giocata sulle due direttive dell'incubo della protagonista e dell'incagliamento dell'imbarcazione nei corpi privi di vita dei soldati.
Ma nonostante l'importanza delle tematiche affrontate, "La vergogna" non riesce a spiccare il volo, rimanendo un esperimento interessante ma solo parzialmente riuscito sotto il profilo artistico. Notiamo infatti un'eccessivo disvalore tra le due parti (la seconda decisamente migliore della prima), un'analisi frettolosa delle psicologie, e alcuni passaggi eccessivamente schematici e banali.
Certo, c'è il bellissimo finale, una fotografia tra le migliori di Sven Nykvist ed una affiatata coppia di attori; tutti elementi di indubbio valore che non bastano però a far amare un'opera fredda, distaccata e troppo lontana dal cuore dello spettatore.

Mpo1  @  07/04/2006 22:03:17
   8½ / 10
Film successivo a “L’Ora del lupo”, appartenente alla fase più sperimentale di Bergman, “La Vergogna” è un film particolare nella filmografia del grande regista svedese, il suo film forse più “concreto”. E' il film di guerra di Bergman, una guerra in cui i contendenti rimangono indefiniti e sostanzialmente intercambiabili, a sottolinearne l’assurdità assoluta. Il film però, più che la guerra stessa, analizza le terribili conseguenze della guerra sull’animo umano.
Sinceramente il personaggio femminile non è simpatico fin dall’inizio, ma l’accento è posto soprattutto sul protagonista maschile, che da uomo mite si trasforma completamente finendo col compiere atti assolutamente esecrabili. Ma forse la situazione di guerra fa solamente emergere i lati più nascosti e oscuri già presenti in lui. La visione pessimistica della natura umana è espressa qui in modo assoluto.
L’ unico difetto del film è una sceneggiatura un po’ confusa, che va avanti e indietro e risulta poco compatta e coerente. D’altra parte è bellissima la fotografia livida di Sven Nykvist, uno dei suoi lavori migliori in assoluto.
Straordinaria la scena finale, una delle più potenti del cinema di Bergman.

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Ultima risposta 08/04/2006 08.34.05
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Crimson  @  22/03/2006 00:32:23
   7 / 10
Un Bergman piuttosto diverso per quanto riguarda la location, in questo film che appartiene in pieno alla fase più sperimentale e credo migliore della sua carriera.
Una guerra senza nome, in cui invasori e resistenti sono indistinguibili. Non ci sono nomi, ma una guerra atroce vista in quanto tale, in modo intrinseco e senza riferimenti anche piccoli che possano dipingerla di colori e ideali. Ogni aspetto viene vissuto tramite le sensazioni dei due protagonisti. Una coppia come tante, ma solo in apparenza. E qui entra in gioco la riflessione più importante che il film riesce a suscitare in me. Riflessione piuttosto atipica. Mi piacciono molto i film di guerra quando riescono a trasmettere, scavando a fondo, le variazioni psichiche che l'orrore e l'aberrazione del conflitto riescono a causare nell'uomo. Questo film è diverso: non rende conto di una degradazione di una psiche equilibrata prima dello scoppio del conflitto, bensì mostra come la guerra sia in grado di mettere a nudo la natura più profonda dei due protagonisti. Emergono in particolar modo il profondissimo egoismo e la sterilità affettiva del marito, e mi fermo qui nell'analisi altrimenti rivelerei troppo. Insomma senza entrare troppo nel particolare, le maschere e i relativi compromessi cadono di fronte alla difficoltà e al senso di totale smarrimento che la guerra è in grado di produrre. E questo è incredibile nelle intenzioni, un pò meno nei risultati. Ho avuto come l'impressione che i caratteri dei due personaggi potessero essere sviluppati meglio. Il film forse è articolato in modo un pò strano: ho trovato la prima parte un pò prolissa, che si perde in particolari anche abbastanza inutili, e una seconda parte che quando entra nel vivo ha una sua conclusione un pò troppo affrettata. Insomma, mi ha lasciato l'amaro in bocca, nonostante il finale sia grandioso, e poco prima c'è una scena eccezionale, crudissima, spietata, che lascia il segno, con protagonista il personaggio interpretato dal mitico Gunnar Bjornstrand (caratterista validissimo come al solito, qui forse in uno dei suoi migliori ruoli! - che ne pensi Mpo1? - ).
Stupenda la fotografia, così come l'ambientazione. Ciò che forse mi ha colpito maggiormente però è l'atteggiamento di totale distacco di tutti i personaggi della vicenda. Raramente c'è un sorriso, un gesto umano. Manca del tutto il calore. Ecco, è un film freddissimo, e la fotografia sostiene in pieno questa sensazione, amplificandola. La guerra è questa, del resto è un prodotto dell'uomo.
"Tutto il nostro odio è il prodotto di un mondo che abbiamo creato" (R.F.).

Know thyself
the beast you are

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