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Primo lungometraggio di Kore'eda, "Maborosi" è già un'opera in cui si rintracciano tutti gli elementi che saranno caratteristici del successivo lavoro del cineasta giapponese: i temi dell'elaborazione del lutto, la famiglia con le sue gioie e i suoi dolori, il tema della vecchiaia, la centralità della figura femminile. Sul piano formale, l'attenzione che Kore'eda riserva ai dettagli, al paesaggio, alla messa in scena. Perchè se è vero che il film è tremendamente "koreediano" è anche un film che omaggia i registi che Kore'eda ama: Ozu (nelle "inquadrature tatami" e nella continua ricerca della centralità prospettica), ma anche Mizoguchi e il nostro Antonioni (la non spiegazione dei salti temporali, la comunicazione assente o frammentata). Se ci si lascia trasportare da questo stile rigoroso ma capace di cogliere la grazia e le sofferenze degli esseri umani, beh, allora si riesce ad assaporare appieno il primo lavoro di un grande regista.
E' un film molto impegnativo nel suo estremo rigore della messa in scena. Luce naturale, campi medi fino alle panoramiche ma nessun primo o primissimo piano dei personaggi. Attraverso la descrizione del quotidinao Koreeda mostra, per così dire, l'irrisolto ed l'inspiegabile e che tale rimarrà fino alla fine, si riesce a vivere il lutto non elaborato di Yumiko, colpita da un evento tragico a cui non riesce a dare spiegazione e che staziona invisibile ma percepibile a livello emotivo nel suo animo. La morte nella sua ineluttabilità ed inevitabilità rimane un questione aperta per i vivi. Nella apparente freddezza formale Marobosi possiede un cuore pulsante e poetico, sia pure venato da una profonda malinconia.
Dopo l'inspiegabile suicidio del marito, Yumico, lasciata sola col figlio appena nato, cerca di rifarsi una vita, sposando un altro uomo che abita in un paese di provincia. Ma l'angoscia non le dà tregua, e il suocero pescatore le racconta la storia di una luce seducente che ha visto una volta in mare.
"Perchè ti sei ucciso?". La domanda che assilla la protagonista di Maboroshi è la stessa che si pone Tsukamoto in Bullet Ballet, con la differenza fondamentale che mentre nel secondo caso il suicidio della fidanzata era dovuto alla solitudine e alla freddezza del rapporto, il marito di Yumiko si toglie la vita senza alcun motivo apparente; avendo un buon lavoro, un matrimonio felice e un figlio di appena tre mesi a cui pensare. E fino alla fine tale gesto rimarrà senza spiegazione, se togliamo l'interpretazione che dà il nuovo marito di Yumiko riguardo a una specie di luce misteriosa che il padre diceva di vedere quando andava da solo in mare aperto.
Lo stato mentale della protagonista si riflette moltissimo negli ambienti e nella scenografia, raramente così spogli e desolati come in questo film. Qualasiasi angolo ripreso, dalle case alle strade, dai treni alle stazioni, è freddo e vuoto. L'estetica di questo film è racchiusa in quella macchina e in quella barca abbandonate e arrugginite, che "non sono più di nessuno". Un'estetica presa da quelle tradizionale giapponese del wabi e del sabi, rispettivamente il cadere in disgrazia e in miseria e l'invecchiare, l'indebolirsi, l'arrugginirsi. Ma se nell'accezione dell'arte tradizionale queste venivano viste come condizioni privilegiate per poter meglio apprezzare la natura circostante e affinare la sensibilità artistica, in Yumiko sembra rimanere solo l'accezione negativa di questi termini. Il suo vuoto interiore pare sterile e senza via d'uscita, e la lega ormai al mondo della morte dalla quale non riesce a liberarsi nemmeno tentando un secondo matrimonio (molto bella è la scena in cui si unisce a una processione).
Il distacco spirituale si riflette poi sulla fotografia, uno degli elementi sicuramente più apprezzabili del film, molto spesso composta di campi lunghi e lunghissimi, con i primi piani molto dosati solo per i momenti più importanti in cui sono necessari.
Raramente mi capita di aver l'onere del primo commento. Si tratta di un film giapponese sul senso del dolore, della memoria e della perdita caratterizzato dall'avere un ritmo lento e pochi dialoghi. Il regista si caratterizza per mantenere una certa distanza dai suoi personaggi quasi a non volerne violare la privacy. Il risultato finale è decisamente buono. L'unico difetto secondo me risiede nella scansione temporale degli avvenimenti visto che tra una sequenza e l'altra gli stacchi temporali sono molto diversi e non indicati (tranne forse in una o due circostanze).