E' sempre più facile al giorno d'oggi dimenticarsi le abitudini che fin da piccoli ci hanno accompagnato. Lo studio, il lavoro, la lontananza dalla famiglia.. tante sono le cause che possono allontanarci dal nostro passato fanciullesco. Ma poi arriva il Natale e quelle memorie spesso ritornano anche se in maniera fugace. Sarebbe bello poter tornare a vivere la Vigilia e il giorno di Natale come nei ricordi piu' dolci. Spegnere smartphone e tablet, sentire il traffico come un lontano brusio e concentrarsi sulla magia dei giorni di festa. Ritrovarsi alla mattina della Vigilia a guardare Willy Wonka e la fabbrica di cioccolato sorseggiando te caldo o cioccolata in tazza, tenere acceso l'albero di Natale tutto il giorno e nel pomeriggio godersi le immagini di qualche film che crea atmosfera come Miracolo nella 34A strada. Per poi passare a qualcosa di divertente dopo il cenone come Mamma ho perso l'aereo o per chi ha voglia ancora di dolcezza Love actually. E poi il giorno di Natale dopo aver rivisto parenti e amici e aver giocato a carte con i nonni godersi qualcosina di piu' cinico come Parenti serpenti. Magari non sono tutti capolavori della cinematografia ma sono film diventati ormai classici che riescono ancora a scrollarsi gli annetti che si ritrovano sulle spalle in maniera energica. Il romanticismo natalizio non si deve esaurire nella crisi economica e sociale, deve seguire i mutamenti di un'epoca e quelli individuali e ridonare a ciascuno, anche se per brevi momenti, quell'illusione di un mai perduto rapporto con la fantasia e la purezza.
Riflessioni sparse sulla diffusione della cinematografia italiana nel resto del mondo
Il cinema di casa nostra, da diversi anni a questa parte, sta attraversando un serio periodo di crisi che ha portato a una progressiva decrescita degli spettatori, e a una sempre minore considerazione da parte del pubblico estero: basti pensare che l'ultimo premio di grosso rilievo internazionale, vale a dire l'Oscar a La vita è bella di Benigni, risale addirittura al 1999!
E' molto difficile capire quali possano essere le ragioni vere di questa decadenza. Il costruire storie molto italiane potrebbe essere una spiegazione, ma considerato che film come Ladri di biciclette o Pane amore e fantasia, tutti girati in italiano e che parlavano di storie "nazionali", hanno fatto il giro del mondo, l'interrogativo persiste. Del resto film francesi o spagnoli con storie "locali" hanno avuto una diffusione e un appeal notevoli nel corso di questi ultimi anni, scatenando anche delle mode. E allora? Quale potrebbe essere il "problema"? Colpa di attori troppo legati al nostro substrato culturale? Del resto anche Totò diceva che un certo tipo di comicità giocata sul doppio senso linguistico non poteva attecchire all'estero.
Colpa di una cattiva rete di distribuzione internazionale? Dare ricette non è forse mestiere di chi il cinema si limita a guardarlo e a "criticarlo"? Una medicina sarebbe già quella di credere un po' di più in quello che si fa, di farlo con maggior impegno, e di sicuro se ne avrà un buon rendimento. Attendiamo le pellicole del 2013 per rivedere il resoconto attuale.
La quinta stagione del secondogenito di Kurt Sutter, creatore di quel capolavoro che è "The Shield", per chi ancora non lo conoscesse, si è da poco conclusa. Le premesse non erano delle migliori, se si considera il finale alquanto debole della quarta, in cui si ha la chiara sensazione che si sia trovato un escomotage di bassa lega per poter portare avanti una storia che sembrava essere giunta al suo climax. Quella sensazione resta in questi ultimi 13 episodi, tuttavia c'è anche dell'altro. C'è che Sutter con la sua solita maestria è riuscito comunque a metter su un'altra parentesi di tutto rispetto, in cui i personaggi evolvono ulteriormente. Ora non starò qui a scrivere di pro e contro, di se e quanto la quinta stagione sia valida, del fatto che siano state ordinate addirittura altre 2 stagioni, ma vorrei più che altro fare un paio di considerazioni su un aspetto che accomuna "The Shield" E "SOA", su un aspetto che si può quindi attribuire in generale allo stile di Kurt Sutter. Mi riferisco, nello specifico, alla capacità di tirar fuori il marcio dai suoi personaggi, o meglio alla capacità di tirarlo fuori dall'inizio ma di farne sentire il tanfo solo più tardi. Nelle varie stagioni di "The Shield" si tifa per Vic, non si discute. E' il protagonista, lo si vuole veder vincere, lo si vuol far sopravvivere, ci si sofferma solo sugli aspetti più umani che lo rendono degno di comprensione, sparsi intelligentemente qua e là all'interno della sceneggiatura. Verso la fine però succede qualcosa, si alza di colpo un'atmosfera maleodorante, Vic resta il bastardo che è, ma sembra quasi che adesso lo spettatore non si limiti più a prenderne atto, ma ad avvertirne il cattivo odore. Ci si rende conto di non parteggiare più per lui, ma di provare per lui la stessa compassione che si prova per un miserabile che si avvicina giustamente alla fossa che si è scavato. Più in generale anche la storia passa dall'essere avvincente e adrenalinica all'assomigliare più ad una tragedia, senza speranza, a tratti opprimente (la scena di Shane,a tal proposito, resta uno dei punti più alti mai raggiunti dal mezzo televisivo). Anche in questo caso lo si sapeva già da prima, ma solo più tardi, quando lo decide Sutter, lo spettatore comincia ad accusare l'aspetto più nero della storia. Questo è l'elemento in assoluto, parere di chi scrive, più riuscito dell'ultima stagione, che è a sua volta, guarda caso, strepitosa.
Nella quarta stagione di "SOA" Sutter fa la stessa cosa. Comincia a tirar giù le maschere, a spogliare i suoi personaggi, a privarli di quel loro apparire, nonostante tutto, ed è il caso di sottolineare “nonostante tutto”, accattivante. Ogni singolo carattere comincia a mostrare i suoi limiti, a far arrivare dall'altra parte una sensazione non più gradevole come prima. Nella quinta stagione Sutter mette in questo senso la quinta, frantuma la superficie sulla quale si muovono i suoi protagonisti, li lascia lì in caduta libera. Anche l'ombra di una qualche salvezza inizia a svanire. E così quell'odore nauseabondo di cui sopra comincia ad avvertirsi chiaramente anche qui, è lo stesso, Sutter sembra adorarlo, e non si può fare a meno di subirne il fascino, perché usato alla perfezione. L'intera stagione è una discesa inesorabile, un crollo continuo di castelli di carta, di volti che non riescono più a guardarsi allo specchio, che si mostrano con una certa difficoltà sapendo che la loro parte più penosa è ormai all'esterno e sotto gli occhi di tutti. Anche gli atteggiamenti in apparenza altruistici non sembrano più tali, sembra che nessuno faccia più niente se non per sé (stupenda la scena di Tig/Jax/Pope nelle ultime puntate). La solitudine la si respira chiaramente, la si respira ovunque, che sia in una stanza vuota o al tavolo circondato dai membri di SAMCRO.
In questo Sutter sembra infallibile. Riesce come pochi a trasformare la consapevolezza in sensazione, riscrivendola e rendendola realmente tale. Arriva un punto durante i suoi racconti in cui sembra si sia riusciti finalmente ad aprire gli occhi e a guardare il vero volto di ciò che si è avuto davanti per varie stagioni, e non più semplicemente a sapere che è lì. Ovviamente, non poteva Sutter perdere l'occasione di chiudere la stagione con un inno a quanto scritto fino a questo momento: si serve di una versione meravigliosa di “Sympathy for the Devil” dei Jane's Addiction, di un testo che più adatto non poteva essere e mette su una scena conclusiva che, come al solito, difficilmente sarebbe migliorabile.
"So if you meet me
Have some courtesy
Have some sympathy, and some taste
Use all your well-learned politesse
Or I'll lay your soul to waste"
Generalmente guardando storie di questo tipo capita di fantasticare un po'. Anche con SOA. Moto, fughe, andrenalina. Al termine della quinta no, non più. "It ain't fun anymore".
Era difficile riprendere da un finale debole come quello della quarta. Sutter c'è riuscito.
Forse è ancora nei cinema l'ultimo film di Haneke. Nel senso che è ancora fresco di sala, ed è inevitabile che un film del genere lasci nello spettatore qualcosa di più del resto dei buoni film che ancora vengono prodotti nel nostro tempo. Poiché "Amour" va al di là del nostro tempo, è un film che è già nella storia del cinema, quella con la s maiuscola. E per uno spettatore giovane come me, che al cinema il massimo dello splendore che ha visto è probabilmente la trilogia di Jackson sul romanzo di Tolkien, vedere "Amour" è equivalso a un brivido storico, oltre che estetico. Il sapere di poter dire ai classici nipoti quando si è classicamente vecchi, "Io c'ero" (assumendo ovviamente che i nipoti siano cinefili). Sì, come tanti che ho conosciuto andarono a vedere Kubrick in prima uscita, o Bergman o Tarkovskij, io ho visto Haneke. E "Amour".
Allora ieri mentre leggevo il grande romanzo di DeLillo, "Underworld", mi capitava sotto gli occhi un piccolo brano, leggermente avulso dal contesto, che mi ha ricordato tantissimo questo film. E siccome era da tempo che volevo scrivere qualcosa in proposito, penso che questo gigante della letteratura americana abbia avuto le parole giuste, anche senza saperlo. Nella scena i due vecchi protagonisti del romanzo ascoltano un brano del compositore Charles Camille Saint-Saëns.
"La puntina saltò alcune note ma lui ci aveva fatto l'abitudine. Si sedette ai margini della stanza, dove poteva sentire il sole della cucina e guardare la faccia di Laura. La musica li unì in modo discreto. Gli parve di entrare nel sogno a occhi aperti di lei. Riusciva a capirla, a conoscerla, quasi, a sentire la sua innocenza attraverso la musica, a riconoscere la bambina, la spigolosa dodicenne che camminava dietro ai genitori per la strada, riusciva a vederla sulla faccia della triste sorella maggiore, era ancora lì, la bambina, nelle borse sotto gli occhi, nelle macchie sulla faccia e nei capelli sbiaditi. Ci fu un momento, nel pezzo, dopo passaggi di delicata rievocazione, in cui parve fare il suo ingresso qualcosa di fosco, mentre la sinistra della solista accelerava il tempo, e questo la spinse ad alzare il braccio in un gesto di sgomento, meditabondo e gravido - nelle note basse aveva sentito un cupo presagio che l'aveva spaventata. E questa era l'altra cosa che condividevano, la tristezza e la chiarezza del tempo, il tempo rimpianto nella musica - il modo in cui il suono, le modulate vibrazioni prodotte da martelletti che battevano corde di metallo, provocava in loro uno strano dolore, non per qualcosa di preciso ma per il tempo in sé, la sensazione concreta di un anno o di un'epoca, le testure del tempo non misurato che ormai sfuggivano a entrambi, e lei stornò gli occhi, fissando oltre la mano alzata qualcosa di trasparente che lui pensò di poter chiamare la sua vita."
Per notizia, “Homeland” è un prodotto televisivo assai riuscito. E merita tutte le mie scuse. Prima che uscisse, infatti, ero convinto sarebbe stato qualcosa di visto e rivisto attraverso il quale far leva sul patriottismo della parte più dormiente del popolo statunitense, e più in generale su coloro che non vogliono cose troppo diverse tra loro quando guardano un film, piuttosto che una serie, piuttosto che qualsiasi altra opera di fantasia. Mi riferisco a coloro che chiedono unicamente il cattivo di turno, l'eroe di turno, svariate soluzioni non troppo credibili e una serie di altri personaggi messi lì tanto per riempire spazi vuoti nell'inquadratura. Insomma, in due numeri, “24”. Se ero così prevenuto, sbagliando, è proprio grazie a quest'ultima serie, amata un po' ovunque ma in realtà pessima. Per niente credibile con i suoi milleduecento colpi di scena a puntata, con un protagonista che da solo sventa praticamente qualsiasi minaccia e che in un solo giorno (24 puntate a stagione, ognuna per ogni ora della giornata) fa quello che farebbero 10 persone in una settimana; con personaggi il cui approfondimento psicologico è perfettamente in linea con la superficie della pianura russa; con uno split-screen che tuttora, a distanza di anni, mi urta cordialmente i nervi; con una marea di altre sciocchezze che non si può star qui ad elencare, perché è di Homeland che si sta scrivendo, quindi torniamo su Homeland. Anche perché, del resto, ne vale assolutamente la pena, essendo l'esatto contrario del prodotto superficialotto di cui sopra. Gideon "Gidi" Raff, creatore della serie, mette in scena un intreccio incredibilmente maturo nonostante il tema ormai fin troppo abusato per racconti di spessore ben più trascurabile: cerca, riuscendoci, di restare sempre sui binari della credibilità, di fare in modo che quanto raccontato possa apparire agli occhi dello spettatore una realtà possibile, facilitando l'immedesimazione dello stesso. Non che rinunci, però, alla spettacolarità, intendiamoci, né ai ritmi più forsennati tipici del thriller, né tanto meno al colpo di scena, usato con maestria e senza cadere nell'eccesso (tranne forse qualcosa, ma al termine di poco conto), pur non sacrificandone l'aspetto più cinematografico. All'intreccio in sé, poi, si affianca ovviamente anche la messa in scena, che non si potrebbe criticare neanche volendo. A partire dalla fotografia, che ricalca perfettamente gli stati d'animo che sfilano sullo schermo, tutti solitari, tormentati e grigi fin quasi al punto di angosciare. Cosa che, peraltro, già fa la sigla d'apertura con quel suo essere un concentrato di fascino e inquietudine.
E' l'introspezione il punto di forza di Homeland. La storia, pur essendo coinvolgente e accattivante, è al suo servizio, mai il contrario. La gamma emozionale dei personaggi è lì sullo schermo, non resta che osservarla e lasciarsi guidare dalla stessa per comprendere i singoli personaggi e provare empatia nei loro confronti. E non solo fotografia e intreccio, anche la regia si adatta per lo più ai tempi richiesti dall'introspezione, tanto che a venirne fuori è un prodotto maledettamente cosciente del suo volto e che infatti non si perde mai per strada. Solido e maturo. Ah, e interpretato meravigliosamente, anche. Chiunque sostenga il contrario farebbe bene a mettersi in un angolo evitando di pronunciarsi su qualsiasi altra questione. Damian Lewis, che già fece una discreta impressione in “The Escapist”, è superbo nella parte di Nicholas Brody. Claire Danes, poi, nel ruolo di Carrie Mathison rischia di far perdere lucidità allo spettatore come accade al suo personaggio, tanto arriva dall'altra parte dello schermo.
A breve terminerà la seconda stagione, che non ha (almeno fino a qualche puntata dalla fine) niente da invidiare alla prima e che anzi tocca picchi davvero notevoli. Credevo potesse essere godibile, ma non così riuscita. Dovreste vederla.