Pubblicato il 14/12/2012 08:36:55 da
paul
Un tempo, parliamo del periodo che va dalla metà degli anni ’60, fino alla fine dei ‘70, in Italia si producevano oltre 300 film all’anno, contro i meno di 50 di oggigiorno.
Il Belpaese era secondo solamente agli Stati Uniti, non solo per film prodotti, ma anche per numero di spettatori che affollavano le sale dei cinema.
Inutile dire perciò che il cinema nostrano era da considerarsi come una vera e propria industria.
Tanto per fare un esempio: al giorno d’oggi un film di grande successo (quasi sempre blockbusters americani) raramente supera la soglia dei tre milioni di spettatori in sala. Film come
Continuavano a chiamarlo trinità del 1971, o
Ultimo tango a parigi del 1968 e
Per qualche dollaro in più del 1965 furono visti al cinema da oltre 14 milioni di spettatori.
Possiamo dire perciò che una pellicola come Trinità, rapportata ai costi odierni del biglietto in sala, avrebbe incassato solamente in Italia una cifra come 112 milioni di euro!
Certo, ai tempi non vi erano televisioni private, internet, dvd ecc… inoltre il prezzo del biglietto era decisamente più popolare rispetto ad oggi, anche valutando l’inflazione: e fino a questo punto si può essere tutti d’accordo.
Ma cosa differenziava il cinema italiano di allora rispetto a quello odierno?
Un solo, FONDAMENTALE, passaggio: che i film italiani di allora venivano distribuiti, e con successo, anche all’estero.
Una volta infatti le nostre pellicole venivano girate in lingua inglese, così da favorire una distribuzione internazionale, e le ambientazioni erano spesso americane o esotiche. Ma non solo: anche quando si trattava di una storia italiana, questa aveva in ogni caso un carattere universale, così che potesse fare presa anche su di uno spettatore americano, francese, spagnolo, tedesco, giapponese, sudamericano ecc…
E’ infatti negli anni ’60 che nascono i cosiddetti film di genere: dagli horror di
Mario Bava, ai western del grande
Sergio Leone, fino ai thriller di
Dario Argento, i poliziotteschi di
Fernando di Leo, gli avventurosi di
Castellari e così via.
Tutte pellicole che incassano tantissimi soldi anche all’estero. Basti pensare a
Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato, girato in inglese (e con protagonisti americani) tra la Foresta Amazzonica e New York: il secondo maggiore incasso della stagione 1982-83 in Giappone dopo lo spilberghiano
E.T. l'extraterrestre. Oppure pensiamo a
Zombi 2 di Fulci, enorme successo commerciale, soprattutto negli Stati Uniti. La coppia Terence Hill/Bud Spencer e i film di Sergio Leone poi fanno un caso a sé, famosi in tutto il mondo.
Con le plusvalenze di tali incassi si andava poi a finanziare i cosiddetti film autoriali, quali quelli di
Fellini e
Olmi.
Oggi tutto è cambiato, se si eccettua qualche rara mosca bianca.
I film vengono girati tutti in lingua italiana, e sono sempre storie drammatiche o commedie. Ma la cosa più disarmante è che sono storie sempre tipicamente italiane, che non interessano nessuno spettatore fuori da quelli del nostro paese.
Con tutto il rispetto infatti, a quale straniero potrebbe mai interessare film quali Baaria o Benvenuti al nord?
Ovviamente ci sarà sempre chi guarderà ai film di genere con aria snob e allora meglio riportare una celebre frase di
Francois Truffaut: “un vero appassionato di cinema lo si distingue subito rispetto ad un millantatore grazie ad un piccolo particolare: l’appassionato di cinema parla della settima arte a 360°, spaziando dall’horror al dramma, e soffermandosi soprattutto su autori quali Hitchcock, Leone o Spielberg. Il millantatore parla di Murnau e Antonioni con aria forbita, ma non sa parlare d’altro. Senza capire che amare il cinema significa amare davvero il cinema in sé, non una carta d’identità”.
Non può che suscitare reazioni viscerali contrastanti il cineasta che ha fatto della passione, soprattutto di quella per il cinema, il motore della sua vita.
Pedro Almodòvar è stato in gioventù un regista dallo spirito eclettico ed inquieto, capace di riflettere se stesso nei suoi film, in modo caotico, con scarsa disciplina, esprimendo una morale sua, affatto convenzionale. Crescendo, con lui è cresciuto anche il suo cinema e si è come raffinato, meglio affinato.
Lo stesso regista, negli anni ’90, ripeteva spesso di voler passare di moda e di voler diventare un classico.
Beh, indiscutibilmente sembra esserci riuscito, se si analizzano le sue creazioni dell’ultimo ventennio, a partire da quello che è stato considerato, non solo dalla critica, anche dal pubblico, l’apice della sua carriera, sto parlando del periodo produttivo di
“
Tutto su mia madre” e di “
Parla con lei”. Entrambi le opere pluripremiate ai festival internazionali più autorevoli.
Chi si ricorda o chi ha seguito il giovane Pedro? Quel giovane scapestrato che, tra gli anni ’70 e ’80, ha fatto del gusto kitsch la propria peculiarità, l’elemento identificante, arricchendolo con lo humor gretto ma ricco d’immaginazione dell’underground madrileno? Questo, probabilmente, è l’Almodòvar meno popolare, più dileggiato per la gestualità irriverente, il sesso spudoratamente esibito, il rock, i colori eccentrici in un tutt’uno di pessimo gusto. Parlo del regista di “
Pepi, Luci, Bom, e le altre ragazze del mucchio” o di “
Labirinto di passioni” e “
L'indiscreto fascino del peccato”, ancora di “
Che ho fatto io per meritare questo?” ( capolavoro d’originalità) fino ad arrivare a “
Matador” e “
La legge del desiderio”. Probabilmente l’Almodòvar che ha provocato le critiche più controverse (a quanti stava sull’anima questo giovane regista - dissacratore dei valori più solidi della società filocattolica spagnola), ma anche il più autentico.
L’uscita, nel 1988, di “
Donne sull'orlo di una crisi di nervi”, sua settima fatica, segna un radicale ampliamento della popolarità del regista castigliano, la sua opera sconfina al di là della Spagna e la critica internazionale incomincia ad occuparsi di lui. In "Donne sull'orlo di una crisi di nervi" c'è ancora, tuttavia, quel gusto per l'assurdo e quel tocco ironico tipico dei primi film in super8, e anche la trama presenta analogie con i cortometraggi sperimentali.
Già con il bellissimo “
Il fiore del mio segreto” s’intravede il passaggio alla maturità, o meglio ad una visione di sé, attraverso le sue opere, più misurata. Sembra spenta la vena libertaria della giovinezza, espressa tramite ogni possibile eccesso iconico, senza alcuna mediazione. Non sono offuscate, però, le note dissacratorie del suo pensiero, che per fortuna permangono quasi a sugellare la propria unicità.
Con la maturità e la responsabilità, derivante dal riconoscimento a livello mondiale, il nostro Pedro acquisisce una più marcata sensibilità e diventa regista adulto, stilisticamente inimitabile: riesce a dosare la propria passionalità, raffina le scelte tecniche e fa centro, come dicevo prima, con i due film che maggiormente lo rendono popolare e lo elevano al gotha della cinematografia mondiale. Beh, è ovvio che la libertà acquisita dalla riconosciuta consacrazione gli offre il varo per progetti più personali come il bellissimo “
Volver”, un giro vorticoso nell’infanzia della Mancha, la sensibilità come omaggio nei confronti dell’universo femminile. Il momento in cui il regista riceve più ammirazione, dal pubblico soprattutto, che conquista universalmente.
Con gli “
Gli abbracci spezzati” e “
La pelle che abito”, le due ultime sue opere, il suo cinema si è fatto ancora più serioso ed autoriale, rispetto alle grottesche commedie dei primi anni, commedie che molti suoi fan iniziano a rimpiangere. Eppure l’osservazione attenta delle ultime sue opere rende evidente quanto sia cresciuto Almodòvar, di quanto si sia raffinato, attraverso le immagini curate nei dettagli con maniacale perizia, dona loro significato e forza espressiva, oggi più di ieri.
Ma, come ad ogni cosa, la maturità gli ha "tolto" la freschezza e la follia; I lavori della maturità sono stati senz’altro più apprezzati forse perché, pur trattando tematiche scottanti e delicate, la sfacciataggine dei primi racconti lascia spazio ad una narrazione più pacata e coinvolgente: lo spettatore ha tempo di riflettere, di godere del personale citazionismo, di cui le opere almodòvariane sono sempre più impregnate.
Chi ha avuto modo di apprezzare l’ultima fase di Almodóvar stenterà a credere che sia lo stesso regista della sua prima fase underground, creatore di un universo coloratissimo e kitsch, pervaso dalla sua grande vena di follia. Chi, al contrario, segue Pedro dall’inizio, percepirà l’assenza di tutto ciò, non riconoscendolo più nel suo raffinato distacco dalle storie, più freddo e analitico nell’esprimere la psicologia dei suoi nuovi personaggi, privi della potenza dei primi.
Probabilmente se n’è accorto anche il regista, dopo “Los abrazos rotos” e "La piel que habito" , pare che nel suo nuovo film abbandoni temporaneamente il melodramma, per tornare alla commedia ambientata a Madrid e ricca di dialoghi paradossali e brillanti come agli esordi.
Noi fedeli fan ci speriamo e lo attendiamo al prossimo festival di Cannes.
Pubblicato il 10/12/2012 08:35:41 da
amterme63Reiner Werner Fassbinder è senz'altro uno dei più grandi registi degli anni '70. A lui dobbiamo capolavori come "
Le lacrime amare di Petra von Kant", "
Il matrimonio di Maria von Braun" e "
Querelle". Ma anche le sue opere meno conosciute sono di grande valore artistico e mantengono intatto tutto il loro valore di anticonvenzionalità e forte spessore emotivo ed estetico. In altre parole le sue opere continuano tuttora a interessare, a coinvolgere, a lasciare affascinati e interdetti, in qualche maniera colpiti.
Il suo cinema quindi non è solo la testimonianza dello spirito di un'epoca, ma rappresenta anche un lascito universale che rimarrà sempre valido e d'interesse pure nelle epoche future.
Se si volesse indicare il valore e il ruolo che ha avuto la sua arte, la si potrebbe indicare come uno dei massimi contributi alla messa in dubbio del sistema di valori e certezze che si erano affermati durante il Novecento. In nome della verità, del rifiuto dell'ipocrisia e delle false illusioni, Fassbinder ha voluto mostrarci come il mondo umano e la realtà non siano altro che una vana lotta che porta solo alla sconfitta e alla morte come rifugio finale. Pur non essendo il suo un cinema esteriormente cruento o crudele, di fatto lo è con l'interiorità dei personaggi, sottoposti a smacchi e delusioni cocenti.
Insomma per Fassbinder la vita umana non ha certezze, non c'è niente a cui ci possiamo appigliare per essere felici, per vivere senza essere sfruttati. L'unico rifugio per liberarsi dalla sofferenza di vivere è la morte.
Si tratta della visione pessimista e fatalista del vivere umano che ha attraversato tutte le epoche della storia umana e che in Italia ha avuto il suo esponente più lucido ed efficace in Leopardi.
Quasi tutti i suoi film parlano di fallimento e scacco, soprattutto in campo affettivo. Già il titolo del suo primo film parla chiaro: "
L'amore è più freddo della morte". Nelle sue prime opere c'è ancora un atteggiamento un po' distaccato e fatalista verso le disavventure dei suoi personaggi, più che altro impigliati e strozzati dalle convenzioni borghesi ("
Perché il signor R è diventato matto? ") o nei freddi e ragionati ruoli di dominio e umiliazione ("
Le lacrime amare di Petra von Kant", "
Martha").
Con il passare del tempo, Fassbinder mette più pathos nella sua amara visione del mondo affettivo umano. I suoi personaggi diventano sensibili e allo stesso tempo deboli e quasi sprovveduti, sballottati e sfruttati cinicamente, per poi essere abbandonati quando non servono più. Nascono così le amarissime e pietose storie di Fox ("
Il diritto del più forte"), di Erwin/Elvira ("
Un anno con tredici lune") e di "
Veronica Voss".
Con il suo ultimo film ("
Querelle") Fassbinder sembrava avere imboccato di nuovo la strada del distacco, della cupa e fredda visione di un mondo regolato solo dagli istinti più inconfessati e (auto)distruttivi; una specie di trionfo della morte ("each man kills the thing he loves", ripete ossessiva Jean Moreau nel film).
Fassbinder ha anche portato la sua visione pessimista e disgregatrice nel campo del vivere sociale e collettivo, rimanendo però sempre coerente e coraggioso nel suo presupposto base di guardare in faccia alla pura e nuda verità (o almeno a ciò che lui riteneva tale) senza appoggiarsi ad alcuna illusione.
Aveva la rara dote di ritrarre il collettivo tramite le vicende dell'individuo. Raccontando i fatti banali e quotidiani del Signor Raab ("
Perché il signor R è diventato matto? ") riesce a dare un resoconto critico corrosivo e impietoso del vuoto, del materialismo e della povertà spirituale della piccola borghesia tedesca. Con la storia di Fox ("
Il diritto del più forte") offre uno dei ritratti più duri e critici dell'alta borghesia tedesca. Addirittura mette in gioco se stesso per illustrare lo stato d'animo collettivo della Germania alla prese con il terrorismo ("
Germania in autunno").
La sintesi mirabile di questa sua grande dote artistica è però il film "
Il matrimonio di Maria von Braun". Raccontando semplicemente il carattere, le avventure, le iniziative di una scaltra e intraprendente ragazza tedesca del dopoguerra, ci descrive metaforicamente la trasformazione della società tedesca, meglio forse che illustrando i fatti storici nudi e crudi.
In ogni caso anche nella sua visione sociale del vivere umano il risultato alla fine è lo stesso: scacco, sconfitta, rifugio nella morte.
Fassbinder ha iniziato la sua carriera cinematografica utilizzando i canoni stilistici della Nouvelle Vague francese, cioè delegando allo spettatore il compito di dare un senso alle immagini, in genere slegate fra di loro e puramente illustrative di stati d'animo.
A partire dal 1970 decide invece di avere un rapporto più diretto con lo spettatore, di comunicare non più tramite segni da interpretare ma puntando direttamente al cuore, all'animo, alla sensibilità di chi assiste visivamente a storie compiute. Al tal fine accentua il potenziale suggestivo di tutti i componenti dell'arte cinematografica: cura moltissimo la posizione della macchina da presa (inquadra spesso le vicende a distanza incorniciandole in porte o pareti per creare senso di claustrofobia o chiusura), le scenografie (per suggerire la qualità e il carattere dei personaggi che ci vivono), le musiche, la posizione dei personaggi nella scena (rendendola significativa ed emotiva), la presenza di specchi o altri elementi illusionistici che moltiplicano i punti di vista.
In altre parole ricorre ai mezzi rodati ed efficaci della tradizione melodrammatica hollywoodiana (soprattutto la sintesi perfetta raggiunta da Douglas Sirk) per colpire emotivamente lo spettatore e lasciare un segno indelebile nel suo animo.
A differenza di Sirk però, Fassbinder dopo aver commosso e amareggiato non concede nessuna speranza, gli ostacoli e le difficoltà vincono inesorabilmente senza possibilità di riscatto.
Coerentemente a ciò che rappresentava sullo schermo, Fassbinder stesso ha conosciuto nella sua vita solo rari scampoli di felicità o tranquillità, è stato segnato dal suicidio del suo compagno e dalla tragica e illusoria via di fuga nella droga. Anche per lui il rifugio finale, il sollievo a tutti i mali è stata la morte.
Eppure nonostante tutto è stato una persona coraggiosa e coerente, ha vissuto la sua vita come ha voluto, senza compromessi, libero di mostrarsi sempre e comunque per quello che era, senza vergogne o ipocrisie.
Grazie Fassbinder.
Gianni, non ci lasciare!
All’indomani della conclusione del TFF, pubblico e critica lanciano un appello affinché
Gianni Amelio (o
Pupi Avati, tanto è uguale), rimanga incollato alla poltrona di direttore (richiesta insolita per gli italiani). Ma nonostante l’incremento dei dati d’affluenza sia lì a registrarne palesemente il successo, la sua fine purtroppo sembra ormai prossima, salutata dal passaggio di testimone quasi certo a
Gabriele Salvatores. Un vero peccato, perché in un autunno caldo brulicante di manifestazioni cinematografiche che si spintonavano tra loro (e non è finita, il
Milano Filmmaker è partito il 30 novembre e durerà fino al 9/12), la luce delle pellicole proiettate all’ombra della Mole è stata indubbiamente la più brillante.
Per buona pace di Anselma Dell’Olio, un fittissimo ventaglio di anteprime (oltre 160) ha sancito la sconfitta del glamour, regalando un’edizione tutta incentrata sul tema dell’identità, scandagliato negli aspetti più turpi e deviati dalla malatissima sezione “Rapporto confidenziale”.
A svettare incontrastato
Chained, pugno allo stomaco firmato Jennifer Lynch, che a differenza del
padre non si serve della dimensione onirica per alleggerire l’atmosfera e smorzare i toni del suo incubo domestico, ma sceglie una messa in scena cruda e realista per scatenare la violenza
dell’inconscio.
(Prima di risalire su un taxi ci penseremo due volte).
Restando sempre nell’ambito del cinema a gestione famigliare, in K-11 la mamma della vampira di Twilight
Kristen Stewart, ci mostra le ignobili condizioni di sopravvivenza dei detenuti di un braccio carcerario destinato a gay, trans e pedofili, il K-11 appunto, calando l’obiettivo tra le pareti unte di un trash movie (dove per trash s’intende in questo caso il richiamo alla sporcizia) claustrofobico e politicamente scorretto.
Ci sono poi il bullismo e la violenza amatoriale di V/H/S, accozzaglia di omaggi tremolanti all’horror in presa diretta (
The Blair witch project,
REC e
Paranormal activity), ma garanzia sicura per il divertimento scacciapensieri degli amanti del genere.
Ci si è potuti inoltre rendere complici di un gioco sadico ai danni di una ragazzina rinchiusa senza vestiti nel magazzino di un fast-wood (prima di tornare al Mcdonald’s ci penseremo due volte), seguendo scrupolosamente gli ordini della legge in
Compliance, polemica rivolta alla cieca fiducia riposta nelle autorità;
e si è potuto provare il brivido di stringere tra le proprie mani l’esile collo di una giovane vittima, vederla implorare pietà, sgozzarla in sincrono con il respiro e le pulsioni del maniaco sessuale e folle omicida di
Maniac, magnifico remake girato tutto in soggettiva.
Si capisce invece poco l’inserimento di Thanks for sharing, coerente nelle premesse (maschi adulti malati di sesso si iscrivono ad un gruppo di sostegno), ma risoltasi nella retorica delle tradizionali commediole americane pregne di moralismo (c’è Gwyneth Paltrow), lontana anni luce dal desolante spaccato metropolitano emerso nello
Shame di Steve Mcqueen (quello di colore).
Spostandoci in TorinoXXX, spazio dedicato alla celebrazione del trentennale della kermesse,
Holy Motors di Leos Carax ha raccolto il maggior numero di applausi, divenendo il film più discusso e apprezzato dell’intera rassegna. Un’opera complessa, dalle mille sfaccettature come mille sono i personaggi in cui il trasformista
Denis Lavant si cala, sfogando in chiave simbolista e meta-cinematografica l’alienazione dell’uomo contemporaneo, costretto ad indossare ogni giorno una maschera diversa e a recitare più ruoli sociali.
Tra gli autori presenti in concorso, oltre a Scott Graham vincitore del palmarès con Shell, storia di solitudine esistenziale tra un padre e una figlia confinati in una stazione di servizio, si è distinto l’italiano Giovanni Columbu, autore di Su Re. Rivisitazione sarda della passione di Cristo,
fortemente sostenuta da
Moretti e distribuita dalla Sacher, ha il pregio di smontare l’iconografia classica del Gesus Christ Superstar bello, biondo e con gli occhi verdi, destinando il martirio ad un cristo brutto, che riflette su di sé l’asprezza del paesaggio circostante.
Ma sarà probabilmente l’esplosione visionaria a stento contenuta in “Festa mobile”, l’unica ad accedere prossimamente nelle sale. L’uscita di
Ruby Sparks è già programmata per questo week-end, adatta a spettatori di tutte le età. Dalla macchina da scrivere di un rampante scrittore troppo pieno di sé per donarsi agli altri, prende vita la ragazza dei sogni, controllata dal battito dei caratteri selezionati a formare le frasi con le azioni da compiere.
Il richiamo per Blancanieves, esperimento spagnolo muto e in b/n, lo consente
The Artist. Se però il trionfatore agli oscar 2011 omaggiava il passato da un’ottica odierna e imbastiva una riflessione sullo statuto del post-moderno, le intenzioni di Pablo Berger sono quanto mai superflue e riguardano la semplice (senz’altro godibile) realizzazione estetica datata 1929, limitata alla sottrazione di suoni e colori.
Così come i fans di Fellini, attirati dalla trama, accorreranno a vedere L’étoile du jour, per poi restare delusi nello scoprire che si tratta di un surrealismo videoclipparo fine a se stesso, che stupra il mondo del circo come fatto dalla recente
Ballata dell'odio e dell'amore, sperando di succhiarne la linfa vitale e accaparrarsi un briciolo di quel furore creativo. (Nemmeno Iggy Pop salva la baracca).
Per l’
Anna Karenina di Joe Wright invece, non servono scuse perché si sfiora il capolavoro.
Sfavillante miscela barocca contaminata da elementi teatrali (sequenze racchiuse dalla cornice di un palcoscenico, metafora del dramma umano in cui è intrappolata l’eroina tolstojana; tableaux vivants atti a simboleggiare l’ingessatura della società moscovita di fine ‘800), trasposta in una
coloratissima chiave pop sullo stile della
Marie Antoinette di coppoliana memoria, ma meno antipatica.
Anche rispetto a Muller.
Perché al Festival di Roma non si sono accorti che il popolo aveva fame e mancava il pane. Mentre a Torino, per fortuna, si è fatto incetta di brioches.
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Pubblicato il 05/12/2012 08:37:00 da
peuceziaE come ogni anno il cinema si prepara al grande attacco di Natale. Già da alcune settimane ogni giovedì, nuova giornata scelta per allungare il weekend e tentare di guadagnare di più al botteghino, escono titoli su titoli. Se ne contano dieci/undici ogni settimana e molti di questi film, soprattutto se minori e ostinatamente programmati in questo periodo dorato, non escono nella maggior parte delle multisale che invece badano solo a lanciare i film più appetibili.
La scomparsa del cinepanettone, o meglio, la sua trasformazione dalla serie infinita del "Natale a" alla nuova pellicola con l'immarcescibile De Sica, è un significativo segno della crisi globale. Ormai diventa inutile sia propinare i soliti Natali volgarotti che di natalizio hanno solo il titolo sia cercare qualcosa di nuovo se si vuole evitare il vuoto pneumatico al botteghino.
I due titoli italiani più natalizi (
Il peggior Natale della mia vita e
Una famiglia perfetta) già usciti peraltro a novembre si contrappongono perché pur tentando di rivisitare le Feste in tono più originale e trasgressivo sposano comunque il già visto; con il primo che ripropone molta commedia anglosassone e l'altro più al vetriolo.
In attesa del verdetto finale attendiamo i titoli in uscita il giorno di Santa Lucia, un'altra giornata chiave per il periodo festaiolo.