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E poi così, di colpo, dopo 2 stagioni intere, o quasi, una serie che ha mostrato fin a quel momento limiti evidenti e debolezze di vario tipo, generando nello spettatore nient'altro che noia, irritazioni finanche cutanee e rabbia per l'enorme occasione sprecata, dimostra che in realtà non è che non fosse in grado di rendersi valida, semplicemente, forse, non le andava. Ho sempre criticato
The Walking Dead con molta convinzione. E con la seconda stagione, poi, ho rincarato la dose ogni volta che me n'è capitata l'occasione. Era infatti diventata una sorta di
Beautiful in un mondo zombiano senza zombie. Quest'ultimi erano quasi del tutto spariti e della trama non restavano che le dinamiche interpersonali tra caratteri di dubbio interesse, delineate attraverso dialoghi quanto meno deboli. Sono arrivato ad ipotizzare che lo scopo primo dei creatori fosse invero quello di metter su una critica al mondo odierno tratteggiando gli umani come i veri zombie, e gli zombie come la giusta cura, come coloro che avrebbero risollevato le sorti del mondo a forza di morsi. Si sarebbe spiegato così il perché della ormai quasi totale assenza di uccisioni violente di
walkers e il perché della gestione così urticante dei personaggi.
Non abbandono mai una serie che ho cominciato o di cui ho visto più di qualche puntata. Deve sfinirmi sul serio perché io lo faccia. “The Walking Dead” è riuscita nell'impresa. A quattro puntate dalla fine della seconda ho lasciato, non ce la facevo più. Volevo mordere Convulsion-Shane, l'uomo che fa dieci scatti con il capo nel dire una sola frase. Di due parole. Volevo uccidere Rick e le sue pippe un tanto al chilo, la sua mancanza di carattere. Volevo picchiare sua moglie, per evitare di far nascere il bambino che portava in grembo in quel mondo di zombie vivi. Volevo prendere a pedate la testa del vecchio, perché parlava troppo, e quella di Hershel, perché semplicemente era troppo stupido per non morire. Davvero, ero arrivato al limite. Questo mesi addietro. Poi un paio di giorni fa decido di riprendere in mano le ultime 4 puntate della stagione, anche in vista dell'inizio della terza. Son sincero, lo avevo fatto con l'unica intenzione di venire qui a sfogarmi, scrivendone di ogni, e per riderci poi su, insieme. Ed è successo l'impossibile. Gli ultimi episodi mi son piaciuti; intendiamoci, qualche cazzata qua e là c'è sempre, ché altrimenti non sarebbe TWD, ma mi son piaciuti.
In appena 120 minuti la serie dimostra, come scrivevo inizialmente, che in realtà non era incapacità la sua, ma pigrizia o qualcosa di simile. Dimostra, in appena 120 minuti, che le posizioni dei vari personaggi, i loro caratteri non erano poco interessanti o poco credibili, né poco condivisibili e realistici, ma solo sviluppati male, senza la giusta introspezione. Il loro fascino potenziale cadeva sempre più rovinosamente sotto i colpi insistenti di dialoghi banali e di sequenze tutt'altro che efficaci. Ed è così che Rick inizia a tirar fuori un po' di carattere tra la fine della seconda stagione e l'inizio della terza; che il vecchio affianca un po' di pathos (trasmettendo di conseguenza una certa empatia) alle sue solite menate, che diventano pertanto meno menate e più riflessioni circostanziate e funzionali al racconto; che la cartolina un po' "Beautiful" inizia a strapparsi e il confine buoni/cattivi inizia a scemare; che Hershel tira fuori un po' di palle e comincia ad uccidere zombie con frasi ignoranti ma molto fighe tipo “Venite qui!!” manco fosse Rambo; che Carl inizia a smettere di comportarsi come un adulto e comincia finalmente a fare stronzate da bambino che più semplicemente si crede un adulto; che Shane, addirittura, diviene miracolosamente un personaggio di spessore. Dopo essere stato irritante nella sua pochezza per svariate puntate, fa un discreto salto di qualità con la fine della puntata 2x10: neanche 30 secondi, nessun dialogo, solo una serie di ideali campi-controcampi tra Shane e il se stesso riflesso in uno zombie solitario che vaga con un andamento che quasi sembra una ballata triste; il tutto accompagnato dall'ottima “
Civilian” degli
Wye Oak. La scena è inaspettatamente potente ed è il simbolo della differenza evidente di qualità tra la serie come la conoscevamo e gli ultimi episodi. “E ci voleva tanto?”, vien da chiedersi.
E così la gente comincia a morire seriamente, nel senso che le morti si sentono, perché i personaggi generano ora un minimo di empatia in più. Gli zombie tornano sullo schermo, tornano a mangiare gente, tornano ad essere il nemico anche per lo spettatore. Si accennava in precedenza che non si sta scrivendo affatto della ripresa del secolo, ma è giusto sottolinearla comunque, così come si sottolineano i limiti quando ci sono. La terza stagione è cominciata da poco e sembra avere anch'essa il suo ritmo, sembra essere discretamente godibile. Magari è stato un sussulto lungo qualche puntata, magari no. Speriamo di no.
Si è da poco conclusa, sugli schermi italiani di
Mtv, una serie televisiva che reca il curioso nome di
Greek. Per chi non lo sapesse, oltre a frequentare il college, una parte degli studenti americani è anche membro di confraternite, caratterizzate dal fatto di avere nomi composti da lettere greche, e di avere una dimensione associativa e organizzativa la cui semantica è totalmente ispirata all’antichità ellenica. Le confraternite servono a vivere più autenticamente, ossia collettivamente, il mondo della preparazione all’università, servono a conoscere tante nuove persone e a sentirsi meno spaesati nel difficile passaggio generazionale dalla scuola secondaria al mondo complesso degli atenei americani. A un livello più implicito, le confraternite servono anche come propedeutica, come primo step per il dominio del mondo.
Proprio nella prima puntata, il protagonista
Rusty Cartwright, giovane brillante ma “geek”, rivela che solo il 4% degli studenti americani vengono da confraternite, ma in quel 4% ci sono alcune fra le più eminenti personalità del mondo politico (in senso ampio) degli Stati Uniti. Per fare un esempio nostrano, la “confraternita” dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano (il cosiddetto
Augustinianum) vanta tra gli altri, come membro storico,
Romano Prodi. Nonostante questo dato “allarmante”, le confraternite sono un fatto ordinario in America, quasi un elemento culturale e di costume, una datità normale del mondo della cultura e dell’istruzione. Non fa quindi stranezza se per il canale televisivo
ABC Family (di proprietà della
Walt Disney) sia stato pensato e mandato in onda un progetto che riguardasse per la prima volta questo curioso ed articolato mondo.
Ispirato, nella struttura, al successo della celebre serie cinematografica degli
American Pie,
Greek a una prima occhiata sembra quello che è: una sempliciotta serie tv che racconta le normali e banali dinamiche relazionali e di crescita degli studenti del college, attraverso l’ottica contestuale delle confraternite. Un’innovazione, o perlomeno una variazione sul tema, sopra a una tradizione ben consolidata e apparentemente incapace di dire qualcosa di nuovo in merito a ciò di cui parla. Gli
American Pie avevano fatto successo perché sapevano coniugare volgarità con spensieratezza, didattismo con irriverenza, ironia con semplicità di formule narrative. Una bomba a orologeria dell’intrattenimento commerciale, un prodotto da molti giudicato privo di qualsivoglia valore estetico, al confronto del grande cinema d’autore a cui la stessa America ci aveva abituati. Poco importa che l’iniziatore di questa tipologia commerciale e cinematografica fosse un autore onorato e importante come
John Landis, con il suo celeberrimo
Animal House. Ricordandoci però che
Greek è stato trasmesso (dal 2007 al 2011) dalla
ABC Family (“La vita segreta di una teenager americana”), possiamo di certo immaginare come agli ingredienti di cui sopra sia stata tolta tutta la parte di volgarità e oscenità che costituiscono una grossa fetta dell’apprezzamento degli
American Pie. Privato anche di questa eccezionale risorsa, ci si può legittimamente domandare come sia potuto succedere che
Greek sia riuscito nella scalata del successo giovanile e anche come ci si sia svincolati dalla necessità di rappresentare in modo comunque veridico e profondo il mondo dei giovani al college come quello che effettivamente è: sesso, feste e irresponsabilità. A questo punto è bene tirare in ballo una considerazione che
David Foster Wallace fece a una conferenza del 1999:
“Vi pare una coincidenza se è durante il college che molti americani si dedicano con più assiduità a scopare e bere fino a crollare e in generale a bagordi estatici di tipo dionisiaco? Non lo è. Gli studenti del college sono adolescenti, e sono atterriti, e affrontano il loro terrore in modo squisitamente statunitense. Quei ragazzi che al venerdì sera si vedono appesi nudi a testa in giù fuori dalle finestre dei circoli goliardici stanno solo cercando di comprarsi qualche ora di evasione dagli argomenti adulti e seri cui qualsiasi college che si rispetti li ha costretti a pensare per tutta la settimana.”
Il problema di una serie tv come
Greek è che non può davvero prescindere dal suo pubblico: i giovani. Rispetto a serie destinate a un pubblico molto più stratificato come
Lost,
Nip/Tuck o
Breaking Bad,
Greek paga il prezzo del suo stesso intento: parlare del mondo giovanile. Il mio obiettivo è di dimostrare perché Patrick Sean Smith, creatore di questo splendido teen drama, è un genio. Nell’affrontare un’opera come questa, uno sceneggiatore doveva far fronte a una serie di complesse problematiche, prima fra tutte il parlare in modo non banale di una cosa che lo è. Questo dovrebbe essere il principio aureo di ogni produzione artistica, ma sappiamo bene che non le cose non stanno esattamente in modo aureo in questo mondo. Che
Greek risultasse o no banale, voglio lanciare l’ipotesi che il successo commerciale lo avrebbe avuto comunque. Lo dimostra il fatto che di
American Pie non ne abbiamo uno, ma dieci. Ma ora veniamo ai perché e ai percome.
Uno spettatore consumato, sia del cinema impegnato che delle serie tv della
HBO, probabilmente non riuscirebbe ad apprezzare
Greek senza una presa di coscienza che sia al tempo stesso un seccante atto di umiltà: fare i conti con la sua banalità per arrivare a comprendere e a vedere dove non è banale. Perché quello che sembra più plausibile, se ci si interroga ossessivamente come ho fatto io sul perché sia così bello, è che
Greek miri a soddisfare un target ben più ampio di quello a cui è destinato. E qui si potrebbe obiettare che allora Smith intendesse solo fare più successo. La cosa che mi spinge a dissentire è che la serie non sembra volerlo fare davvero, ma semplicemente farlo. Nelle intenzioni rimane la divertente e spensierata storia di un gruppo di amici in confraternite rivali, nei risultati si rivela una dolce e delicata, nonché profonda narrazione delle complessità del mondo giovanile. E ce n’era bisogno, perché in fin dei conti è davvero molto difficile parlare di questa cosa senza scadere nel retorico e nel
Gus Van Sant (ossia di un cinema d’autore che si occupi di giovinezza, quindi sostanzialmente “per adulti”). Pochi hanno davvero il coraggio di affrontare in modo serio il mondo adolescenziale, perché sembra essere un’età troppo poco interessante: in fondo che ricordi abbiamo di quel periodo? Eravamo semplicemente incasinati e felici. Che cosa rende un mondo di festini, alcool, belle ragazze, studio approssimativo e svogliato un materiale per un intrattenimento di livello, un qualcosa che sappia anche farci pensare, e magari appassionare e commuovere?
L’inaspettato. Smith punta proprio sul fattore-sorpresa. Mantenendo inalterata la struttura superficiale del genere del teen drama, Smith ci presenta quattro stagioni in cui le prime due forniscono l’esoscheletro, la base della storia e del racconto, le altre due mettono la polpa. E ciò che fa davvero battere il cuore di questo misconosciuto gioiello dell’intrattenimento statunitense è proprio la scarica elettrica del “non l’avrei mai detto”. Con precisione e sincronia perfette, Smith fa emergere pian piano le personalità insicure e profonde, illuminate dal tiepido candore di un’età magica e inafferrabile, di ogni personaggio, conducendo essi e la storia a un risultato sempre più incongruo e meraviglioso: così avremo che la stereotipata e banale formula iniziale, quella per cui la confraternita sia il chilometro uno della strada per la Casa Bianca, venga capovolta con un agilissimo colpo di mano, basato sull’ironia e la dolcezza. Ed è così che sulle note banali, ma terribilmente rassicuranti di
Forever Young degli
Alphaville si rivela lo sguardo profondo e insieme realista del creatore, in una immenso happy-ma-ce-lo-siamo-guadagnati-davvero- ending che mantiene le promesse e fa di più: Cappie e Casey, i Renzo e Lucia di questa storia, sapranno sfuggire alla descrizione impietosa di Wallace, e volare liberi, senza alcun futuro preteorico e stabilito davanti, senza alcuna volontà di rientrare in piccole percentuali statistiche di presidenti, yuppies e WASP, di riuscire a distinguere in mezzo alla caotica miriade di esperienze senza senso del college cosa non è solo esperienza, ma anche base solida da cui partire per fondare una vita autentica e il più reale possibile, di spiccare il volo in modo sicuro “ovunque vogliamo andare”. Nessuna libertà di essere giovani, ma libertà di essere persone.
Un angelo in crisi esistenziale da senso di colpa e i leggendari Leviatani in giro per gli Stati Uniti con lo scopo di trasformare gli statunitensi in cibi succulenti, perché, cito testualmente, “
they're fat”. Uno si potrebbe chiedere, tra le altre cose, da dove siano usciti; ma dal Purgatorio, è chiaro. Il Purgatorio, infatti, non solo esiste, ma in determinate circostanze puoi pure entrarci e visitarlo, anche se per farlo devi saper staccare teste e sbudellare gente con coltellacci mica da ridere. Del resto, se nelle precedenti stagioni si era fatta una capatina all'Inferno, e pure una passeggiata in Paradiso, Il Purgatorio non poteva essere
off-limits. E infatti non lo è. E' grigio, nel caso ve lo steste chiedendo, tutto grigio. E al suo interno si fa solo a botte.
E quando si combatte, nella vita, non è come nel bagno turco de “
La promessa dell'assassino” di
Cronenberg, no. Al contrario, è tutto molto più figo. Hai una colonna sonora che ti parte in automatico quando stai per andare a spaccare il culo al cattivo di turno. E non una qualsiasi, una di tutto rispetto. Se per esempio stai per buttarti con una certa cazzutaggine nella fossa dei leoni, “
Born to be Wild” degli Steppenwolf viene sparata a tutto volume da casse invisibili ma potentissime piazzate qua e là vicino al luogo dello scontro, e tu ti gasi tantissimo. E vinci. E non è vero che immortale significa che qualcuno o qualcosa non può morire, ma solo che devi ancora scoprire come si fa, magari semplicemente perché non ti è ancora capitato tra le mani Il Verbo di Dio che ti spiega come fare. Perché esiste pure quello, insieme ad una marea di altre cose.
Quella che ti propinano in TV, come quella che vivi tutti i giorni, non è la vita reale; quando muori, esempio come un altro, non è vero che muori, finisci davvero in Paradiso (o altrove a seconda della tua condotta in vita). Non è un'invenzione religiosa; tutti quei sermoni ascoltati in chiesa non sono falsi. O perlomeno non totalmente. Si, perché “Supernatural” ci insegna che anche il Paradiso esiste ma che al suo interno non è poi tutto rosa e fiori, ci sono fazioni di angeli che se le menano di santa ragione. E però è emozionante, no? Se raccontassero tutta la verità io in chiesa infatti ci andrei volentieri. Comunque, dicevo, non muori veramente. Non solo nel senso che vai da qualche altra parte, ma proprio nel senso che se sei abbastanza in gamba dal Paradiso (o Inferno o Purgatorio) puoi uscire e tornare alla tua vita di tutti i giorni, beffando la Morte. Bisogna del resto considerare che la Morte, ci insegna sempre "Supernatural", non è solo un dato di fatto, la Morte è un essere pensante, e come tutti gli esseri pensanti può sbagliare. Se vi interessa, c'ha una Cadillac bianca la Morte, se ne va in giro con quella. Quindi se la vedete sappiate che potreste schiattare da un momento all'altro (vabbè che poi potete tornare...). Ah, altro indizio, quando cammina la Morte va a ralenti, e non perché la rende figa sullo schermo, è proprio perché va a ralenti. Altro mito da sfatare, quest'ultimo: quella del ralenti non è una tecnica da post-produzione, è una capacità che puoi usare quando diventi abbastanza figo, per l'appunto. E immagina che spettacolo se nel mentre ti capita tra le mani il martello di Thor, com'è successo a Sam. Eh, perché esistono anche tutti gli altri dei, ovviamente. Non è che essendoci i principali elementi cristiani allora esiste solo Dio. Nella prossima stagione uno tra Sam e Dean potrebbe finire nel Valhalla, e lì sì che di canzoni rockettare ne partirebbero in quantità industriali. Tipo “Locomotive Breath”, che accompagna il riepilogo ad inizio ottava stagione. Già, ben otto stagioni. E potrebbero essercene altre otto, non preoccupandosi “Supernatural” di qualsivoglia credibilità. L'importante è che si vada avanti tra esagerazioni sempre maggiori, coscienza della propria appartenenza all'intrattenimento più privo di impegno di sempre e fantastiche ambientazioni canadesi. Guardatela, vi aprirà gli occhi su come funziona il mondo, non sarà un libro di fisica a farlo.
Pubblicato il 11/10/2012 08:44:45 da
Zero00
Il 23 Novembre del 1963 la rete televisiva britannica BBC trasmise il primo episodio di Doctor Who. A conti fatti questa serie compie 33 anni (dal 1963 al 1989 e dal 2005 ad oggi) proprio nel 2012 e il 33 è da sempre un numero particolare, fortemente simbolico.
Opera sci-fi diretta ad un pubblico under 18, Doctor Who è forse il serial più longevo della storia della televisione. Ventisei stagioni della serie classica, un film per la tv e sei stagioni della nuova serie dal 2005, per un totale di più di 700 episodi (e una manciata di speciali), narra le avventure del Dottore, alieno proveniente dal pianeta Gallifrey e ultimo Signore del Tempo, sopravvissuto alla distruzione del suo mondo e della sua civiltà. Sì, signore del tempo, perchè i gallifreiani sono capaci di muoversi nello spazio e nel tempo viaggiando su enormi navi spaziali chiamate TARDIS (Time And Relative Dimension(s) In Space). Apparentemente del tutto simili agli umani, hanno in realtà due cuori, doppio sistema circolatorio, un sistema respiratorio che gli permette di restare senz'aria e una temperatura corporea di 15-16 gradi Celsius. Hanno inoltre la capacità telepatiche e quella importantissima di guarire più velocemente e di rigenerare il proprio corpo in caso di morte violenta o naturale per ben 12 volte, avendo quindi a loro disposizione 13 vite, cosa che li rende virtualmente immortali.
Il Dottore ha più di novecento anni, è un genio ed è l'ultimo della sua specie; viaggia per le galassie su una cabina telefonica blu della polizia inglese. Odia la violenza ma è capace di ira funesta, è in grado di risolvere qualsiasi situazione e il suo nome è temuto in tutto l'universo dai suoi nemici. Nel corso dei suoi viaggi è stato accompagnato da uno o più "Companions", terrestri che per un breve periodo lo hanno affiancato nelle sue avventure, rivelandosi di fondamentale importanza e a volte salvandogli persino la vita.
Una serie così lunga e complessa che sarebbe impossibile sintetizzarla in poche righe. Che poi sarebbe anche deleterio: Doctor Who va guardato, goduto e amato. Perchè fa sognare, perchè apre le porte dell'universo e di quel mondo fanciullesco che ogniuno ha dentro di se. Quante volte guardano le stelle ci siamo chiesti cosa ci fosse lassù? In un certo senso qui ci viene data una risposta: l'unico modo per saperlo sarebbe andarci, lassù, e vedere con i propri occhi.
Nonostante sia stata concepita come serie under 18, Doctor Who è tutt'altro che infantile, alternando paura, ironia, comicità e azione ma anche momenti di vera profondità psicologica e filosofica. Sfaccettata come il suo protagonista, è in grado di far ridere, piangere e sognare, persino di aver paura. Cosa ci può essere di più bello di qualcosa che racchiude questi sentimenti tutti insieme?
Amore e guerra, malinconia e riso, noi soffriamo e gioiamo durante e dopo la visione, ci esaltiamo per i colpi di genio di un personaggio unico nella propria molteplicità, per le frasi ad effetto e i giochi di parole. Ma basta anche solo uno sguardo, un'avvenimento rivissuto all'ombra del fantasy e noi diveniamo i companions finali del Dottore, realizzando così quell'antico sogno di trovare qualcuno che ci prenda e ci porti via per vivere avventure uniche e straordinarie, anche se solo con la fantasia, anche se solo per qualche istante.
Questo autunno è partita la Settima Stagione, che presenterà novità a livello di comprimari. Per ora sono stati trasmessi i primi cinque episodi delle nuove avventure dell'Undicesimo Dottore, mentre per i restanti dovremo aspettare il 2013. Ci sarà spazio per una nuova companion interpretata da Jenna-Louise Coleman, per lutti e nuovi/vecchi nemici. E la domanda a cui bisognerà rispondere sarà una e una sola: Dottor chi?