Ci hanno provato in molti a fissare sul grande schermo quella ricerca del tempo perduto che fu la fortuna di Proust nella letteratura. Non si può dire che l'operazione sia semplice e i casi si contano sulle dita di una mano.
Resta da vedere quante dita debbano alzarsi per Heimat di Edgar Reitz: tre? Quattro? Uno solo?
Forse quest'ultima opzione.
Heimat è famoso per essere (stato) uno dei film più lunghi della storia del cinema, nonché progetto
ambiziosissimo che vuole riscrivere la storia e la memoria collettiva della Germania. Edgar Reitz, colui che ha concepito e costruito materialmente questa idea, ha quindi dato vita nel 1984 all'uscita del primo Heimat: undici episodi, quasi 16 ore di cinema. Un grande successo mondiale e televisivo anche se vale la pena ricordare che siamo lontanissimi dalle serie tv attuali: la forma è quella del cinema.
Con molta lentezza e passione ho deciso di realizzare uno speciale sul progetto di Reitz che mi ha da sempre appassionato. È appena uscita quella che dovrebbe essere la prima parte mentre le restanti due parti sono ancora in lavorazione. Lo speciale è incline più ad una semplice recensione sulla trama e i fatti che del contesto storico vero e proprio.
Ma se non avete mai visto Heimat oppure volete approfondire, chissà, magari qualche spunto interessante potreste trarlo lo stesso.
Reitz intanto non si ferma e gira un altro Heimat a quanto pare, ambientato stavolta nell'800.
Cliccando su questo LINK potrete trovare lo speciale al film. Buona lettura.
Parliamo per un secondo dell'85a cerimonia degli Oscar che si terra' al Dolby Theatre di Los Angeles il prossimo 24 febbraio. Quest'ultima edizione sara' presentata da Seth MacFarlane, classe 1973, attore comico, sceneggiatore, regista , doppiatore e soprattutto creatore di serie televisive di successo come I Griffin, American Dad! e the Cleveland Show. La precedente premiazione era stata condotta da Billy Crystal, dopo il repentino abbandono del prescelto Eddy Murphy. Purtroppo, quella del 2012, e' stata segnalata da tutti i fan della cerimonia e dell'attore come una delle più sottotono degli ultimi anni. Io effettivamente l'ho guardata interamente in diretta e non mi sono addormentata solamente poiché ai tempi soffrivo d'insonnia. I momenti morti sono stati parecchi, nonostante non siano mancati passaggi toccanti o divertenti. Quest'anno l'augurio e' che il tutto si svolga in maniera più leggera e piacevole. Un pensiero pero' anche in questo 2013 già mi attanaglia la mente e mi fa presagire che alcuni momenti morti ci saranno e riguarderanno le esibizioni sul palco della cinquina delle canzoni candidate alla conquista dell'ambita statuetta. In effetti ho sempre trovato piuttosto pesanti durante questo tipo di premiazione, che diciamolo in Italia e' trasmessa ad un orario da fuori di testa e dura più di "Cloud Atlas", le esibizioni di queste canzoni, anche perché spesso non ricordo che appartengano ad una determinata colonna sonora. Tali emozioni non totalmente positive già si palesano come cronaca di una noia annunciata. Non so se qualcuno ha ascoltato la canzone di Bombay Jayashri "Pi's lullaby" (da Vita di Pi), beh io l'ho fatto e sbadiglio fin d'ora al pensiero; poi c'e' "Skyfall" di Adele, certamente carina e orecchiabile, ma che ormai, sfruttata in svariate pubblicità e cantata in troppi talent show, e' finita col divenire irritante. Vogliamo poi parlare della vivacità e del brio che ci regalerà la performance di "Before my time" interpretata da Scarlett Johansson e Joshua Bell? In ritmo davvero trascinante ed irresistibile. Tralascio i Miserabili che comunque e' un musical e in rari casi recenti le canzoni estrapolate da questo tipo di contesto filmico rendono quanto ci si aspetterebbe. Quello che proprio non mi spiego e' la candidatura di "Everybody needs a best friend" cantata da Norah Jones in "Ted", ai danni della fantastica "La canzoncina del temporale-il Rimbombamico", sempre da "Ted". Quest'ultima, almeno, avrebbe provocato un moto sopra i nostri divani e soprattutto lo sprint per giungere alla fine della cerimonia quando si assegnano i premi solitamente più attesi. Incrociamo le dita e prepariamo tanto caffè!
Ci eravamo persi qualcosa.
Sapevamo già i Daft Punk essere ossessionati dalla contrapposizione robot-uomo e dal percorso per diventare umani; lo suggeriscono le canzoni e ne parla già il loro primo film animato, Interstella 5555, tratto dall’intero album “Discovery” e disegnato dall’animatore giapponese Matsumoto. Come se non bastasse, i loro stessi alter ego sono robot, quelli che salgono sui palchi di tutto il mondo a suonare i pezzi che li hanno resi famosi.
Daft Punk's Electroma, del 2006, è uscito sotto assoluto silenzio. Neanche parlarne di una distribuzione italiana, figurarsi, ma è lo stesso web che si accorge a malapena della sua esistenza.
L’illustre rotocalco digitale Filmscoop, infatti, ne espone una scheda vuota, e a questo va posto rimedio.
Cominciamo col dire che si tratta di un film ostico. La stessa definizione di film mi lascia dubbioso,
ritenendo forse più attinente quella di videoclip, ma comunque ognuno lo interpreti di per sé.
Il popolo del web che ha potuto assistere a questo lavoro si è ritrovato disorientato, principalmente per il carattere non convenzionale dell’opera, e le ragioni della meraviglia, per la maggior parte, sono così giustificate “non mi aspettavo che un duo electro/pop che fa ballare la gente potesse fare una cosa simile”.
Ci si aspettava, forse, una produzione più in grande stile e mainstream à la Tron Legacy, di cui gli stessi DP hanno curato le musiche.
Ed effettivamente, a guardare DP’s Electroma, con lunghi silenzi e intermezzi di classica (Haydn, Chopin) e ambient (l’imprescindibile Brian Eno), mai si potrebbe pensare al prodotto di una coppia di giovanotti tamarri, che vanno in giro con giacche borchiate (una cosa del loro stile che simpaticamente rimane nel film).
La risposta è semplicemente che i Daft Punk sono sempre stati qualcosa di più di ciò che comunemente si pensava, la musica orecchiabile era frutto di uno studio e di una trasposizione in chiave moderna di vecchi pezzi, dei più svariati generi. Gli ossessivi ritmi robotici, una ricerca di ciò che si può fare con suoni esclusivamente digitali.
Come sempre dico, mi piace pensare che ciascuno di questi Artisti abbia una certa cultura – musicale e non – che non sempre esplicitamente ostenta, ma che dovrebbe intuirsi dalla qualità dei prodotti finali. Questo film ne è la prova.
Pensate ad esempio ad un Tarantino che si limitasse ad emulare e la smettesse di citare spudoratamente.
Vabbè questa è un po’ forte, Tarantino senza cit. non è lui.
Insomma, il film.
Inizia con una Ferrari 400i nera – di quelle che avete visto solo in scala BBurago - in mezzo a qualche deserto americano, con atmosfere on the road anni ’80 e ci trasporta lentamente, attraverso uno scenario Asimoviano con lunghissimi piani sequenza e tempi dilatati allo sfinimento – e ve lo dico sinceramente, il più delle volte la vostra mente scivolerà verso altri pensieri - ad un drammatico finale nel deserto. Un po’ Koyaanisqatsi per il suo intreccio natura-musica, un po’ – per forza di cose – Live at Pompeii, per un tentativo di sublimazione delle immagini con la musica e della musica con le immagini, ma con molte più tregue musicali rispetto al documentario di Adrian Maben.
La gente dà anche sottili interpretazioni sull’etica dell’androide. Qui l’unica spiegazione da dare si risolve nelle immagini.
Cesare Brandi, uno dei massimi storici e teorici d’arte italiani, ha parlato di “Riconoscimento di opera d’arte”, come quel momento in cui si smette di associare a un oggetto la funzione per cui è stato creato e gli si associa un pensiero più grande, e l’immagine dell’oggetto, del quadro, viene interiorizzata; perderla, da quel momento in poi, potrebbe equivalere a una perdita affettiva, interiore, come di un parente di tutti.
Ebbene, nel cinema, secondo me, si può fare un discorso analogo. Nata come oggetto con un preciso scopo, da una pellicola si possono estrapolare poche significative immagini che restino come exemplum, iconiche. Qui ce ne sono due o tre, separate, c’è da ammetterlo, da lunghi momenti di noia.
Non so cosa ho visto, non so cosa ho scritto. Credo solo che ci eravamo persi qualcosa.
Il primo fu 2001 Odissea nello spazio. Il genere "science fiction", che fino ad allora era di basso profilo, fu nobilitato per salire di categoria.
Il film esamina argomenti complessi, suscita forti impatti emotivi e a tutt'oggi ha segnato un passo fondamentale nella storia del cinema.
Anche Alien e la sua saga, con le palesi metafore, trascende dalla storia di fantascienza tout court.
L'ultimo decennio e in particolare gli ultimissimi anni, vuoi per un crescente bisogno da parte dell'uomo di soddisfare una sua parte spirituale che la vita moderna portava a trascurare, vuoi per la consapevolezza di vivere in quell'età futura che i grandi autori di fantascienza, sia in ambito letterario che cinematografico, avevano descritto e preconizzato, ha visto fiorire una serie di pellicole a stampo intellettual-filosofico tutte introspettive, astruse e talora anche noiose.
Ultimo della serie, uscito da pochi giorni, è Cloud Atlas: un film nel film, lungo ma non noioso apologo della vita e della libertà. La storia ha la novita di vedere collegati tra loro in un unicum passato, presente e futuro combinando generi filmici diversi (l'avventura dell'episodio ottocentesco, il genere commedia grottesca dell'episodio ambientato ai giorni d'oggi, il distopico degli episodi dei secoli futuri). Non manca un notevole camaleontismo da parte dei vari interpreti che passano ai vari personaggi (di epoche e talvolta di sesso diverso) con disinvoltura e mestiere.
Appena finito di vedere Stay - Nel labirinto della mente. Bella cagata. Però a volte una bella cagata è quello che ci vuole. L'ho visto per noia, e con la noia sono stato ripagato. Solito twist nauseabondamente iterato fino a noia. Se non l'avete visto non fatelo, tanto si capisce da subito che è tutta un'allucinazione pre-morte. Io l'ho capito piuttosto presto, più o meno quando la barra del download era al 45%. Dai "soliti sospetti" non è che freghi la gente così, come se piovesse; personalmente, l'ultimo twist che mi ha fregato è stato quello centrale di Tall man, ignobilmente tradotto con "I bambini di Cold Rock". Anzi, ma quali soliti sospetti; un illustre capolavoro del twist è Jacob's Ladder, anche lui misteriosamente tradotto con "Allucinazione Perversa", titolo che certamente incoraggia la visone. Ecco, il vero mistero è perchè uno si ritrovi con 'sti titoli. Se non avete visto "Jacob's Ladder" fatelo subito; ci tengo talmente tanto acchè lo vediate che manco ve lo spoilero. Che poi Adrian Lyne si è ispirato ad un racconto di Ambrose Bierce, "Accadde al ponte di Owl Creek", anche se non lo ammetterà mai nemmeno sotto tortura. Ok, forse non era saggio citare la fonte dello scopiazzamento sagace, ma anche voi; vi fidate troppo. A questo punto, do per certo che sappiate che per twist si intende una svolta nella narrazione che capovolge il punto di vista, presentando gli eventi da un'angolazione non ortodossa, o qualcosa del genere. Quel che è certo è che il twist andrebbe annoverato tra i generi più acclamati dell'ultimo ventennio/trentennio. Oltre ai già citati, ci sarebbero anche "Il Sesto Senso", "The Others", e poi non mi ricordo più. Ecco, li ho visti e analizzati praticamente tutti, ma è come quando vi chiedono a bruciapelo di raccontare una barzelletta; le sapete, e pure tante, ma lì per lì non riuscite a cacciarne fuori una che sia una. Tornando a "Stay"; solita sbobba, ma ben cucinata. Buona regia e buona recitazione, nonostante l'abuso di inquadrature sghembe. Non si sa come, ma il film funziona, nonostante la presenza di un cane come Ryan Gosling ("Drive" fa schifo because of him). Già, funziona; basta far finta di non aver vissuto su questo pianeta per almeno trent'anni. A me riesce facile; pensate, ogni mattina mi sveglio e mi lavo i denti, anche se l'ho già fatto il giorno precedente. Ah, forse prima vi ho detto di non vederlo e ora vi consiglio di farlo, ma non ricordo e non ho voglia di rileggere. Abbiate pietà.