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Pubblicato il 19/10/2012 08:34:57 da
kowalsky
Una scena dal film "Riff Raff" di Ken Loach
Qualche volta la facevano franca, i detentori di etichette, inserendo tra i generi di film denominazioni che oggi non hanno più alcun credito, come "film sociale". Esiste o no il cinema "sociale"? Un'incrocio tra
L'emploi du temps di Laurent Cantet e
Riff Raff di Ken Loach? Prendiamo il cinema inglese, se pensiamo all'Inghilterra i due nomi più comparabili sembrano essere - e sono - proprio
Ken Loach e
Mike Leigh. Se si passa alla letteratura, il primo nome credibile è quello di
Jonathan Coe, mentre per i musicisti dovremmo scomodare gli anni '80 di
Billy Bragg (un Dylan britannico con tonnellate di socialismo alle spalle), con il Red Wedge fondato in anni di barricate e crisi economica, di
Paul Weller e degli
Style Council, dei falsi minatori contaminati di soul tipo
Dexy's Midnight Runners, o degli oltranzisti pub-hooligans sfamati di nichilismo punk come i
Redskins, o altri barricadieri-meteora, gli
Easterhouse, e ovviamente i tardo-hippies vezzati in un'immaginaria factory
The Smiths.
Un po' poco sul fronte del cinema, molto di più sul piano squisitamente musicale. A cavallo tra gli anni '70 e '80, prima del Diluvio del Thatcherismo più oppressivo, c'erano le pub-band del periodo
Rockpile, a dimostrazione che l'Icona del luogo d'incontro è sempre stata la via più diffusa per le contaminazioni ed esperienze ideologico-sociali.
Il Cinema inglese, oltre a un periodo di piccoli fasti di genere come l'esperienza Hammer, e alla commedia di origine teatrale à la Noel Coward - che per i Moderni suppongo faccia l'effetto della riesumazione del cadavere di Nilla Pizzi per un'ennesimo tributo al teatro Ariston di Sanremo - oltre al noir classico impostato da
Carol Reed o alla spettacolarità multiforme e nondimeno letteraria di
David Lean, visse come qualcuno forse saprà la sua personalissima
Nouvelle Vague.
Oggi tutti sanno che esiste(va) un film seminale e innovativo come
I giovani arrabbiati (1959) ma nessuno sembra l'abbia visto. E' il primo manifesto importante di una corrente teatrale e letteraria che agiva sotto la dicitura di "Angry young men", per l'appunto. Tra i nomi più rappresentativi, John Debourne e Harold Pinter, futuro sceneggiatore di
Joseph Losey. Lo chiamavano
Free Cinema e molti pensano sia giusto che se ne parli, ma pochissimi sanno di cosa si parla. E onestamente c'è una discreta differenza tra il Free Cinema e la Nouvelle Vague, sia dal punto di vista stilistico che tecnico-visivo. Probabilmente il free cinema inglese è più uniforme rispetto all'appassionante maquillage del cinema francese, più vicino semmai a quella sorta di antologia da outsiders innescata da registi come
Marcel Carné ("
Peccatori in blue jeans", "
Gioventù nuda"),
Jean Delannoy, la falsa vena scanzonata di
Jacques Demy e l'America transfugata in Europa del primo
Jean-Pierre Melville.
Più che cercare la vanità dell'innovazione stilistica a tutti i costi, come ha fatto
Truffaut o ancor meglio
Godard, il Free Cinema lascia ai suoi personaggi la possibilità di interpretare con spontanea aderenza (mdp filtrata nello sguardo degli attori o delle attrici) ruolo e soggetto.
Il film più celebrato, per quanto misconosciuto, è ancora oggi
Sabato sera, domenica mattina (1960) di
Karel Reisz, interpretato da un Albert Finney giovane e splendidamente lontano dai clamori del glamour che rispecchia anche chi si avvale dell'espediente sociale per interiorizzarlo.
Ma prendete un film come
Sapore di miele (1961), opera atipica ambientata nella West End londinese o giù di lì. E' la storia di una giovanissima ragazza (Rita Tushingham) che viene messa incinta da un marinaio, e scopre l'amicizia (o meglio, il trait d'union tra due emarginati perenni) con un omosessuale di quartiere. L'ironia malsana che talvolta esprime la protagonista (cito la frase "I thought about you last night, and I felt out the bed twice") quasi stride con l'amarezza della vicenda e dell'ambiente che la circonda. Storie di classi operaie che (non) vanno in paradiso, di gioventù allo sbando ("
Gioventù, amore e rabbia" di Tony Richardson), di madri distratte o alcolizzate, di padri assenti, o magari anche di nobili in via di decadenza ("
Il servo" di Losey). L'Inghilterra che fa i conti in tasca al proprio delirio economico-culturale non è una novità (v. Charles Dickens) ma fa pensare. Sembra che esista un riflesso drammatico e più profondo tra le diverse classi sociali che in qualsiasi altro paese al mondo.
"L'ingiustizia è sempre perfetta. La gente perbene ha fame. Chi non vale è amato. E chi è buono muore", questa non è come potrebbe sembrare una serie di aforismi dell'ultimo letterato fuori tempo massimo, ma una serie di battute incrociate nel film £I giovani arrabbiati", manifesto del Free Cinema e di una nuova filosofia di pensiero che durerà - come vedremo - per i futuri decenni. Il Free Cinema che aveva alimentato cineasti come
John Schlesinger,
Jack Clayton,
Richard Lester o
Lindsay Anderson (il regista del durissimo "
Se...", 1969) ha avuto il merito di catturare il disagio sociale e di trasformarlo in un'invettiva universale benché legata monoliticamente alla ferita aperta della collettività inglese.
Se il primo Ken Loach collaborò al movimento, egli è stato in seguito il più deciso divulgatore di questa corrente. Il Free Cinema è stata in fondo la Rivoluzione più attraente e sconosciuta della storia, con i suoi successivi legami alla Swinging London ("
Ci divertiamo da matti", 1967, di Desmond Davis) e alla cultura beat (dal Lester dei film sui Beatles al Darling di Schlesinger).
Richard Burton (1925-1984)
Ma più di tutti resta impresso nella memoria dei pochi che lo conoscono le immagini in b/n con i volti di attori più (Laurence Harvey, Richard Burton, Julie Christie) o meno (Tom Courtenay, James Fox) conosciuti chiamati in causa come figure proletarie attraversate da un disagio privato che la gente comune, quella sfacciatamente eletta middle-of-the-road, capisce e più o meno consciamente vive tutti i giorni. C'è però una volontà di riscatto che va ben oltre lo stereotipo della quotidianità dell'operaio di fabbrica o dello studente di belle speranze senza un vero futuro, e in fondo è la stessa che accumuna un bellissimo romanzo di ALAN HOLLINGHURST e
La strada dei quartieri alti (1959), capolavoro cinematografico di Jack Clayton. Sono lacrime amare quelle versate dal protagonista, Laurence Harvey, che reclama una posizione sociale abbiente a scapito della felicità, e non è da meno l'amicizia di un ragazzo per un Dorian Gray viziato e vanitoso nel post-moderno "La Linea della Bellezza", in un'Inghilterra già infettata di Aids e meschini compromessi romantici.
Il dualismo del Free Cinema richiama alla memoria un'origine teatrale dove la diversità imposta come atto visivo (cfr. le celebri camicie a scacchi di Albert Finney o i modesti mocassini di un beatnik sedentario) sottolinea la deviante disperazione di una o più generazioni. Non tutti i GIOVANI ARRABBIATI di quel periodo diventarono dei divi, e infatti MIKE LEIGH non ci prova nemmeno a sollecitare questa celebrità. Chi si ricorda i nomi dei protagonisti di
Belle speranze, per esempio? O della favolosa interprete di
Ladybird Ladybird o magari della giovane sfortunata di
Family life, entrambi di KEN LOACH? Se esisteva un Inizio per il Free Cinema (intorno al 1955), non è così facile intravvederne l'epilogo. Ma anche noi, che questa rivoluzione sconosciuta l'abbiamo lasciata estinguere anche nel più lontano dei ricordi, ricorderemo per sempre il buffo volto di
Rita Tushingam mentre cerca di liberarsi da quel mondo, attraversando le piccole e anguste strade dei quartieri popolari londinesi, proprio come farebbero tutti i ragazzi di quartiere che cercano una risposta in qualche miraggio abbagliante, oltre le mura sociali delle nostre città
Pubblicato il 18/10/2012 08:39:36 da
peuceziaSembra che ultimamente il cinema italiano stia puntando molto sui ggiovani: scritto così perché, malgrado le film commission sparse per tutto il territorio nazionale, le pellicole uscite in queste prime settimane della nuova stagione cinematografica sono spesso ambientate a Roma.
Pensiamo a "
Il Rosso e il Blu".
È vero, è tratto da un romanzo quindi deve adeguarsi ed esserne fedele, però sarebbe stato carino un film sul mondo della scuola ambientato a Foggia, giusto per fare un nome di una località poco lanciata sul grande schermo.
Tornando alla riflessione iniziale: a settembre è uscito il film sulla scuola con
Scamarcio e la
Buy: sguardo ai ragazzi, alle loro paure, alla loro vita... poi esce "
Un giorno speciale"
e l'obiettivo si sposta su quelli che hanno terminato gli studi e sono in cerca, stanno imparando a vivere e a loro spese scoprono che il mestiere di vivere si trasforma in un male di vivere. E poi esce il nuovo film di Virzì, "
Tutti i santi giorni",
e l'attenzione si sposta sui precari intorno ai trent'anni, precari nel lavoro e nella vita, e il quadro si completa. Peccato che, come facevano gli scrittori nell'età vittoriana, il cinema si limita a mostrare, ma soluzioni nisba... del resto non le vuole dare nessuno queste soluzioni...
Pubblicato il 17/10/2012 08:39:25 da
The GauntLo so, è come sparare sulla Croce rossa, ma come diceva Corrado Guzzanti alias Rocco Smitherson (regista de paura) "sono sempre 50 punti". Ora in questa sede non è oggetto di riflessione quei mitici titoli che la distribuzione italiana appioppava come il celeberrimo "Non drammatizziamo è solo questione di corna" di Francois Truffaut, ma da profano della materia (la distribuzione cinematografica, appunto) innescare una serie di quesiti che si riprongono ciclicamente ad ogni stagione cinematografica che si possono riassumere in una semplice domanda: perché alcune pellicole non sono distribuite nelle sale cinematografiche?
Sarebbe facile prendere esempi come la produzione orientale che ha trovato e tuttora trova notevoli difficoltà distributive nel nostro paese. Basti pensare, rimanendo comunque nel campo delle ipotesi, all'ultimo vincitore del Leone d'oro all'ultima rassegna veneziana,
Pieta di Kim Ki-Duk. Parliamo di un regista più che affermato a livello mondiale. E se non avesse vinto il Leone? Oppure, peggio ancora, se fosse rimasto a bocca asciutta da ogni tipo di premio? Sarebbe stata così solerte la sua distribuzione subito dopo il festival? Mi limito a porre la domanda ben sapendo tuttavia che in questo caso particolare un distributore piccolo come la Good Films batta il ferro (sic!) finché è caldo.
Per rimanere su film recenti possiamo vedere i casi di
Killer Joe e
The Way Back. Registi pinco pallino alla loro opera d'esordio? Direi proprio di no. Qui parliamo di William Friedkin e Peter Weir che tutto possono essere, tranne due emeriti sconosciuti al grande pubblico. Eppure faticano a trovare spazio nella distribuzione italiana. Ora, da spettatore medio, quando vedo che due autori di questo calibro non riescono a trovare spazio adeguato nelle nostre sale cinematografiche mi viene facile da pensare che c'è qualcosa che non va.
Prendiamo Killer Joe. Eccellente riscontro di critica e pubblico al festival di Venezia (edizione 2011, precisiamo). Premi zero, ma ingenuamente una persona è portata a pensare che trattandosi di Friedkin, un piccolo spazio distributivo in tempi brevi si può trovare. Che tradotto in soldoni significa poche copie stampate per poche sale e per poco tempo, poi si vede. Il "poi si vede" invece si traduce quasi sempre nel "Hai visto mai che il vecchio passaparola può funzionare ancora?".
Uno spettatore medio spera ma nulla, silenzio per oltre un anno.
Di Killer Joe si sono perse le tracce, nemmeno il sottoscritto ci sperava più e invece.... miracolo! (dal Dizionario online Hoepli, Miracolo: fenomeno sensibile straordinario, che avviene al di fuori delle normali leggi della natura, attribuito all'intervento divino).
Killer Joe, novella Madonna di Lourdes, appare nel listino della Bolero film per l'11 ottobre per la gioia dei quattro gatti che riusciranno a vederlo.
Dopotutto Friedkin era già stato bastonato a dovere dalla nostra distribuzione molti anni indietro con "
Vivere e morire a Los Angeles", non un suo film qualsiasi. Infatti non solo uscì un anno dopo rispetto agli Stati Uniti, ma distribuito nel nostro paese nel mese di giugno. Ovvero come ti ammazzo un film già prima della sua uscita, visto che il giugno italiano non è proprio come il giugno americano.
Altro caso clamoroso, anzi più clamoroso è quello di The Way back. Ad onor del vero, anche la distribuzione mondiale non è stata affatto generosa con questo film, ma ovviamente quando c'è da prendere il peggio da tutto il mondo, l'Italia è sempre in prima fila e si è giustamente adeguata. Il ritardo in questo caso è stato di oltre due anni. Nemmeno il sottoscritto sapeva, fino ad un annetto fa, che Peter Weir aveva fatto un nuovo film. Mancando dai tempi di
Master & Commander (cioè nove anni fa) una persona si abitua alle assenze, peggio si dimentica.
Quello che stupisce è che il distributore italiano è la 01 (leggi Rai cinema). Ora da spettatore medio, in quel ginepraio che è la distribuzione italiana, i massimi attori del mercato della distribuzione sono appunto Rai e Medusa. Fuori da essi sei fregato o al massimo ti becchi le briciole. Avendo nel proprio listino un film di Peter Weir uscito due anni prima, perché è occorso tutto questo tempo per la messa in onda nelle sale? Per far gridare di nuovo al miracolo? Eppure a questi signori non credo che abbiano scarsità di sale. Se la collocazione a giugno in genere è pessima figuriamoci a The Way back uscito nel mese di luglio.
Limitiamoci solo a questi due casi. Il discorso si può allargare a dismisura: da film italiani non distribuiti o mal distribuiti, ai generi ormai scomparsi dalle sale italiane (horror, thriller, tranne la commedia, per carità guai a toccarla!), perfino a pellicole straniere distribuite nel nostro paese, quando all'estero sono già in blu-ray edizione de luxe.
I perchè rimangono sempre inalterati. Da anni.
Firmato
Un umile spettatore medio.
PS: non ho mai menzionato Internet ben conscio che dal ginepraio saremmo passati allo scoperchiare il Vaso di Pandora.
Dopotutto la pirateria è un reato.
L'istigazione a delinquere, pure.
Mark Cousins è un genio. Mark Cousins è un pazzo. Mark Cousins è l’autore di un documentario di 15 ore sulla storia del cinema, che si chiama “The Story of film”: prodotto per il canale televisivo More4, presentato al Toronto Film Festival, è ora in alcune sale italiane, distribuito dalla Bim (Dio li benedica), e il 4 dicembre prossimo sarà disponibile in dvd. Un cofanetto di 5 dvd che non vedo l’ora di acquistare.
Vedere il film al cinema è un po’ complicato. Come si fa a distribuire un film di 15 episodi? Un po’ come Heimat, lo si proietta a puntate. Siccome ogni episodio dura un’ora, il film è stato suddiviso in sette parti (sì, l’ultima dura 3 ore), ciascuna delle quali esce la settimana successiva alla precedente. Il problema è che il film viene proiettato soltanto una sera alla settimana, in pochissime sale di nove città italiane (nella maggior parte delle città la prima parte, comprendente i primi 2 episodi, è stata proiettata martedì 25 settembre scorso. A Firenze la proiezione è stata anticipata di una settimana; a Mestre slittata di una).
Ora vi starete chiedendo, perché non si sia pensato bene di distribuire direttamente in qualche canale televisivo un’opera del genere. Al di là degli ovvi motivi di ordine finanziario (“The story of film” evidentemente non interessava a nessun canale televisivo nostrano…), le ragioni sono qualitative. Il lavoro di Mark Cousins è di valore superiore.
E’ per questo che attendo con impazienza l’uscita del cofanetto.
Ho potuto vedere due episodi in anteprima, ed è stato un trip. O, se preferite, un orgasmo cinefilo.
Mark Cousins reinventa la storia del cinema tradizionale, guidato da due parole chiave: innovazione e ribellione. Per raccontare il nuovo cinema americano degli anni ’70, per dire, non comincia dove ogni manuale di storia del cinema comincerebbe – cioè da Coppola, da Scorsese, dalla factory di Corman o da “
Gangster Story”. I mostri sacri del New American Cinema li lascia per ultimi, e non ci fa vedere “
Il Padrino”: semmai “
Taxi driver”. Ma lui inizia dalla satira (da “
MASH” e “
Comma 22”), prosegue con la contestazione e con il cinema dei neri d’America (appassionandoci a Charles Burnett e al suo “Killer of sheep”). Infine si dedica a un’intervista a Paul Schrader, con il quale discute – fra le altre cose – della citazione con cui “
American gigolo” omaggia nel finale “
Pickpocket” di Bresson…
A proposito delle interviste: c’è da dire che il documentario di Mark Cousins in questo è molto lontano dall’impianto dei documentari tradizionali. Poche le interviste, molte le scene girate direttamente da Cousins stesso sui luoghi del cinema (decine di paesi esplorati, in sei continenti), adattando il proprio stile a quello del cinema e dell’epoca di cui sta parlando, per suggerire anche attraverso le immagini – di grande sensibilità, peraltro – e rendere più agevole la comprensione del discorso che, di volta in volta, conduce.
A parte le scene girate direttamente da Cousins, però, a farla da padrone è il cinema stesso, attraverso le circa mille scene di film scelte da Cousins. “The story of film” è un condensato di storia del cinema che si mostra: se per Hitchkock il cinema era la vita senza i momenti noiosi, il monumento eretto da Cousins alla storia del cinema è una sorta di trailer di 15 ore del cinema tutto, di tutti i tempi e di tutte le latitudini. Senza i momenti noiosi.
In più, come dice Cousins, “parlare con Baz Luhrmann della scena dell’acquario in Romeo + Giulietta e poi montare la sua voce sulla sequenza dell’acquario è qualcosa di molto più intimo e vicino al film, che non limitarsi a scrivere di quella scena”.
La cosa più bella di tutto ciò è l’equilibrio formidabile tra capacità di “insegnamento” e capacità di coinvolgimento. Durante i due episodi che ho visto, non ho avuto un momento di noia, un sussulto di impazienza o una fase di smarrimento. Quando Cousins ti parla di film che ami o che comunque conosci, ti sollecita nuove suggestioni e ti apre una prospettiva, uno sguardo ulteriore. Quando Cousins si addentra in territori a te poco noti o del tutto sconosciuti, si lascia seguire perfettamente, pur con un ritmo sempre incalzante (e mai prolisso). Quel che ti rimane è la sensazione che, prima di aver avuto la fortuna di imbatterti in “The story of film”, conoscevi molto meno di quel che credevi, e, insieme a questa, la sensazione di avere di fronte un universo ancora inesplorato. E, per di più, con sottomano le mappe per orientarti, e i percorsi da seguire.
Affascinante.
Lo stile di Cousins va di pari passo alla sua strabordante cinefilia: appassionato, e allo stesso tempo lucido, è per lo più distante dall’accademia, incentrato com’è sui due pilastri portanti costituiti dalla “ribellione” e dall’ “innovazione” (che meraviglia il discorso sulla profondità di campo, nel quinto episodio!, con fior fior di scene che esemplificano quello che la voce narrante spiega, o per meglio dire scene nobilitate e rese trasparenti, nei loro valori formali, stilistici ed artistici, mentre la voce fuori campo te li illustra!).
Che altro ancora dire? In attesa di riparlarne a visione completa, qualche dato di produzione, che soddisfa la curiosità di chi, come me, si è chiesto come diavolo abbia fatto questo genio, questo pazzo nordirlandese di Belfast, a realizzare un lavoro simile. Cousins di persona è un ragazzo simpaticissimo, che assomiglia un po’ a Morrissey, dalle osservazioni acute e stimolanti, e dal ciuffo riccio, che sprizza da tutti i pori la sua passione per il cinema (all’intervista con la stampa si è presentato con una t-shirt con su scritto “cinephile”). Leggo le sue note biografiche: tutto è nato da un libro, “The story of film” appunto, risalente ai primi anni 2000, scritto di getto in undici mesi: un libro privo di troppi tecnicismi (e ci credo, visto che anche il film parla un linguaggio assai semplice e fruibile anche dai “non addetti ai lavori”), e destinato al grande pubblico. …Spero sia presto tradotto anche in Italia.
Nel 2005, a Cousins fu proposto di girare un documentario a partire dal suo libro: quello che inizialmente era già un ambizioso progetto della durata preventivata di tre ore, nel corso dei suoi oltre cinque anni di gestazione è lievitato a quello che vediamo adesso, ossia il primo documentario integrale che illustra la storia del cinema attraverso i film.
Delirante, forse, nella sua ambizione di concentrarsi “enciclopedicamente” sull’insieme, ma pur sempre qualcosa che - mi pare - non era stata ancora mai tentata da nessuno, sotto questa forma. E, quel che più conta, è un’operazione completamente riuscita. E se così è – e diavolo se lo sembra, dai due episodi che ho visto – lo è grazie non solo al talento e alla competenza, all’originale intelligenza del suo autore. Che saranno tante finché si vuole: ma, come dice proprio Cousins, il suo “è un atto d’amore per il cinema”.
Un atto d’amore che innamora.
PS: qui trovate la lista completa del migliaio di film che potrete vedere, guardando “The story of film”.
Ordinati per episodi.
Come abbiano fatto davvero con i copyright, non me lo chiedete.
Pubblicato il 10/10/2012 08:39:11 da
peucezia
Marc Augé in un suo celebre saggio ha introdotto il termine magico del "non luogo" ovvero uno spazio privo di un'identità, una storia e delle relazioni.
Non luogo è l'aeroporto, non luogo è l'albergo e ambedue sono stati spesso protagonisti di pellicole cinematografiche di alterno successo. L'aeroporto ha avuto il suo momento di gloria con il film di
Steven Spielberg interpretato da
Tom Hanks, "
The Terminal", un vero trionfo della non appartenenza visto che il protagonista del film era costretto a permanere all'interno dell'aeroporto di New York a causa di un cavillo burocratico.
"
Ferrohotel", docufilm uscito nel 2011 e ben piazzato in vari filmfest sparsi per l'Italia e oltre confine, celebra ancor più definitivamente l'importanza del luogo che non c'è: il
Ferrhotel del titolo è un ex albergo per ferrovieri che nel 2010 è stato autonomamente occupato da un nutrito gruppo di profughi somali.
Come in un albergo "normale" ma all'insegna della precarietà più cogente gli occupanti si organizzano, fanno amicizia, vivono, passano.
Intuizione felice o coincidenza per i due registi -autori del documentario (Angela Barbanente e Sergio Gravili) o moda?
Interrogati preferirono soffermarsi sulla cinematografia d'impegno e impegno fu, vero e confermato.
Ma resta evidente quella celebrazione di un luogo che manca, occupato da persone che "non sono" essendo profughi in cerca. E tutto torna alle origini.