Una scena dal film "Riff Raff" di Ken Loach
Qualche volta la facevano franca, i detentori di etichette, inserendo tra i generi di film denominazioni che oggi non hanno più alcun credito, come "film sociale". Esiste o no il cinema "sociale"? Un'incrocio tra
L'emploi du temps di Laurent Cantet e
Riff Raff di Ken Loach? Prendiamo il cinema inglese, se pensiamo all'Inghilterra i due nomi più comparabili sembrano essere - e sono - proprio
Ken Loach e
Mike Leigh. Se si passa alla letteratura, il primo nome credibile è quello di
Jonathan Coe, mentre per i musicisti dovremmo scomodare gli anni '80 di
Billy Bragg (un Dylan britannico con tonnellate di socialismo alle spalle), con il Red Wedge fondato in anni di barricate e crisi economica, di
Paul Weller e degli
Style Council, dei falsi minatori contaminati di soul tipo
Dexy's Midnight Runners, o degli oltranzisti pub-hooligans sfamati di nichilismo punk come i
Redskins, o altri barricadieri-meteora, gli
Easterhouse, e ovviamente i tardo-hippies vezzati in un'immaginaria factory
The Smiths.
Un po' poco sul fronte del cinema, molto di più sul piano squisitamente musicale. A cavallo tra gli anni '70 e '80, prima del Diluvio del Thatcherismo più oppressivo, c'erano le pub-band del periodo
Rockpile, a dimostrazione che l'Icona del luogo d'incontro è sempre stata la via più diffusa per le contaminazioni ed esperienze ideologico-sociali.
Il Cinema inglese, oltre a un periodo di piccoli fasti di genere come l'esperienza Hammer, e alla commedia di origine teatrale à la Noel Coward - che per i Moderni suppongo faccia l'effetto della riesumazione del cadavere di Nilla Pizzi per un'ennesimo tributo al teatro Ariston di Sanremo - oltre al noir classico impostato da
Carol Reed o alla spettacolarità multiforme e nondimeno letteraria di
David Lean, visse come qualcuno forse saprà la sua personalissima
Nouvelle Vague.
Oggi tutti sanno che esiste(va) un film seminale e innovativo come
I giovani arrabbiati (1959) ma nessuno sembra l'abbia visto. E' il primo manifesto importante di una corrente teatrale e letteraria che agiva sotto la dicitura di "Angry young men", per l'appunto. Tra i nomi più rappresentativi, John Debourne e Harold Pinter, futuro sceneggiatore di
Joseph Losey. Lo chiamavano
Free Cinema e molti pensano sia giusto che se ne parli, ma pochissimi sanno di cosa si parla. E onestamente c'è una discreta differenza tra il Free Cinema e la Nouvelle Vague, sia dal punto di vista stilistico che tecnico-visivo. Probabilmente il free cinema inglese è più uniforme rispetto all'appassionante maquillage del cinema francese, più vicino semmai a quella sorta di antologia da outsiders innescata da registi come
Marcel Carné ("
Peccatori in blue jeans", "
Gioventù nuda"),
Jean Delannoy, la falsa vena scanzonata di
Jacques Demy e l'America transfugata in Europa del primo
Jean-Pierre Melville.
Più che cercare la vanità dell'innovazione stilistica a tutti i costi, come ha fatto
Truffaut o ancor meglio
Godard, il Free Cinema lascia ai suoi personaggi la possibilità di interpretare con spontanea aderenza (mdp filtrata nello sguardo degli attori o delle attrici) ruolo e soggetto.
Il film più celebrato, per quanto misconosciuto, è ancora oggi
Sabato sera, domenica mattina (1960) di
Karel Reisz, interpretato da un Albert Finney giovane e splendidamente lontano dai clamori del glamour che rispecchia anche chi si avvale dell'espediente sociale per interiorizzarlo.
Ma prendete un film come
Sapore di miele (1961), opera atipica ambientata nella West End londinese o giù di lì. E' la storia di una giovanissima ragazza (Rita Tushingham) che viene messa incinta da un marinaio, e scopre l'amicizia (o meglio, il trait d'union tra due emarginati perenni) con un omosessuale di quartiere. L'ironia malsana che talvolta esprime la protagonista (cito la frase "I thought about you last night, and I felt out the bed twice") quasi stride con l'amarezza della vicenda e dell'ambiente che la circonda. Storie di classi operaie che (non) vanno in paradiso, di gioventù allo sbando ("
Gioventù, amore e rabbia" di Tony Richardson), di madri distratte o alcolizzate, di padri assenti, o magari anche di nobili in via di decadenza ("
Il servo" di Losey). L'Inghilterra che fa i conti in tasca al proprio delirio economico-culturale non è una novità (v. Charles Dickens) ma fa pensare. Sembra che esista un riflesso drammatico e più profondo tra le diverse classi sociali che in qualsiasi altro paese al mondo.
"L'ingiustizia è sempre perfetta. La gente perbene ha fame. Chi non vale è amato. E chi è buono muore", questa non è come potrebbe sembrare una serie di aforismi dell'ultimo letterato fuori tempo massimo, ma una serie di battute incrociate nel film £I giovani arrabbiati", manifesto del Free Cinema e di una nuova filosofia di pensiero che durerà - come vedremo - per i futuri decenni. Il Free Cinema che aveva alimentato cineasti come
John Schlesinger,
Jack Clayton,
Richard Lester o
Lindsay Anderson (il regista del durissimo "
Se...", 1969) ha avuto il merito di catturare il disagio sociale e di trasformarlo in un'invettiva universale benché legata monoliticamente alla ferita aperta della collettività inglese.
Se il primo Ken Loach collaborò al movimento, egli è stato in seguito il più deciso divulgatore di questa corrente. Il Free Cinema è stata in fondo la Rivoluzione più attraente e sconosciuta della storia, con i suoi successivi legami alla Swinging London ("
Ci divertiamo da matti", 1967, di Desmond Davis) e alla cultura beat (dal Lester dei film sui Beatles al Darling di Schlesinger).
Richard Burton (1925-1984)
Ma più di tutti resta impresso nella memoria dei pochi che lo conoscono le immagini in b/n con i volti di attori più (Laurence Harvey, Richard Burton, Julie Christie) o meno (Tom Courtenay, James Fox) conosciuti chiamati in causa come figure proletarie attraversate da un disagio privato che la gente comune, quella sfacciatamente eletta middle-of-the-road, capisce e più o meno consciamente vive tutti i giorni. C'è però una volontà di riscatto che va ben oltre lo stereotipo della quotidianità dell'operaio di fabbrica o dello studente di belle speranze senza un vero futuro, e in fondo è la stessa che accumuna un bellissimo romanzo di ALAN HOLLINGHURST e
La strada dei quartieri alti (1959), capolavoro cinematografico di Jack Clayton. Sono lacrime amare quelle versate dal protagonista, Laurence Harvey, che reclama una posizione sociale abbiente a scapito della felicità, e non è da meno l'amicizia di un ragazzo per un Dorian Gray viziato e vanitoso nel post-moderno "La Linea della Bellezza", in un'Inghilterra già infettata di Aids e meschini compromessi romantici.
Il dualismo del Free Cinema richiama alla memoria un'origine teatrale dove la diversità imposta come atto visivo (cfr. le celebri camicie a scacchi di Albert Finney o i modesti mocassini di un beatnik sedentario) sottolinea la deviante disperazione di una o più generazioni. Non tutti i GIOVANI ARRABBIATI di quel periodo diventarono dei divi, e infatti MIKE LEIGH non ci prova nemmeno a sollecitare questa celebrità. Chi si ricorda i nomi dei protagonisti di
Belle speranze, per esempio? O della favolosa interprete di
Ladybird Ladybird o magari della giovane sfortunata di
Family life, entrambi di KEN LOACH? Se esisteva un Inizio per il Free Cinema (intorno al 1955), non è così facile intravvederne l'epilogo. Ma anche noi, che questa rivoluzione sconosciuta l'abbiamo lasciata estinguere anche nel più lontano dei ricordi, ricorderemo per sempre il buffo volto di
Rita Tushingam mentre cerca di liberarsi da quel mondo, attraversando le piccole e anguste strade dei quartieri popolari londinesi, proprio come farebbero tutti i ragazzi di quartiere che cercano una risposta in qualche miraggio abbagliante, oltre le mura sociali delle nostre città
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