Innanzitutto un trailer (spiacente, ma è solo in nippo senza sub):
Una domanda che potrebbe sorgere spontanea è "Si vedrà mai questo miniserial in Italia?". Alquanto improbabile a meno di miracoli dell'ultima ora causati da improvviso impazzimento di qualche canale digitale che di punto in bianco vuole rischiare con un prodotto simile. Qui non siamo di fronte a personaggi famosi come Lynch (Twin Peaks) o Von Trier (The Kingdom), che solo con il loro nome unito alla qualità del prodotto possono garantire il cosidetto "rientro" da tale investimento.
Kyoshi Kurosawa non è certo un esimio sconosciuto, ma se usciamo dall'ambito prettamente cinefilo e in fondo neanche da quello, se si conosce poco o nulla del cinema orientale, ci troviamo un lavoro che avrà una distribuzione pressoché nulla a livello televisivo.
Di cinema non se ne parla proprio, considerata la durata considerevole di quattro ore e mezza (cinque ore circa quella televisiva) e decisamente anticommerciale a livello distributivo. Rischiare per un prodotto con una durata simile e spettacoli giornalieri ovviamente molto limitati, perdipiù per una pellicola orientale, è impensabile.
In vita mia ho imparato che non bisogna mai stupirsi di nulla, quindi sarei piacevolmente sorpreso se un distributore rischiasse i propri soldi per Shokuzai aka Penance (titolo internazionale per aiutare gli utenti). Non stupitevi però se al tizio in questione verrà applicato successivamente un TSO seduta stante.
Kyoshi Kurosawa con Shokuzai dimostra che se un regista ha talento e qualità lo può dimostrare anche in campo televisivo. La televisione non corrompe un bravo regista, anzi riesce ad essere ugualmente malleabile allo scopo prefissato senza snaturare le caratteristiche o le tematiche a lui collegate. Ed è questo anche il caso di Shokuzai.
Kurosawa è noto in Italia soprattutto per i J-horror come Kairo o lavori molto raffinati come Cure o Tokyo sonata. Shokuzai non si mostra come un lavoro a sè stante della carriera di questo regista, bensì molto coerente con la sua filmografia.
Shokuzai è il dramma esistenziale di cinque vite, cinque donne segnate da una tragedia, un peso opprimente che viene perpetrato nel tempo che annulla la vita di ciascuna di esse e le condanna ad una solitudine in cui lo squilibrio fra la colpa e il castigo rende l'espiazione un percorso doloroso ed angosciante. Kurosawa depura dalla componente horror questo suo lavoro televisivo arrivando all'essenza stessa del suo cinema, ai lati oscuri e nascosti dell'animo umano.
Questo è il link per leggere lo speciale, se siete interessati.
Il cinema è arte e l'arte è l'espressione diretta dell'universo spirituale umano. Certi film, certi registi riescono a esprimere stati d'animo collettivi meglio di trattati o di conferenze. Lynch e la sua filmografia occupano uno dei posti di rilievo in quella corrente artistica, sorta soprattutto dagli anni '70 in poi, che esprime sentimento di smarrimento, incertezza, perdita di punti di riferimento, paura e instabilità. Tutto questo semplicemente usando il potere illusorio ed evocativo che possiede l'immagine filmata su pellicola. La tecnica artistica usata da Lynch, soprattutto in alcuni film, è fra le più originali ed estreme, allo stesso tempo semplice e complessa, senz'altro unica e irripetibile.
Lo si vede subito guardando le prime opere del regista: i cortometraggi "The Alphabet" e soprattutto "The Grandmother". Sono opere povere, scarne, non parlate (semplici appunto) ma molto suggestive, grazie alla stranezza, all'originale visionarietà e alla fantasia di stampo inquietante e onirico di tutte le scene (quindi molto complesse). La quasi totale mancanza di nessi logici è compensata dalla forte suggestione evocativa e simbolica delle immagini. Come in quasi tutte le opere d'arte moderna, è compito dello spettatore riflettere e trovare all'interno della propria sensibilità le tracce emotive lasciate dall'esperienza estetica.
Il coronamento di questa prima fase "sperimentale" è il lungometraggio "Eraserhead", uno dei capolavori del cinema cosiddetto "d'avanguardia". Anche "Eraserhead" è un film scarno, semplice, senza nessuna pretesa di bellezza o fascino visivo; anzi stride per il degrado e l'inospitalità dell'ambientazione, la povertà materiale ed umana ritratta, l'irrompere del mostruoso, dell'inquietante e del destabilizzante. Tutta la pellicola, dall'inizio alla fine, è pervasa da un disagio angoscioso che si taglia con il coltello. Realtà, sogno, desideri, incubi, angosce, sensi di colpa si mescolano in una miscela amara e disturbante.
Il rimosso umano si prende la sua rivincita artistica e diventa padrone, mostrando l'altra faccia di noi stessi, quella insicura, debole, angosciata.
Dopo quest'opera estrema Lynch si cimenta con il cinema cosiddetto "mainstream". Lo fa con grande mestiere e perizia tecnica, senza rinunciare però ad alludere al mondo oscuro e nascosto che si cela dietro l'apparente ordine della "normalità". Nel suo capolavoro "The Elephant Man" l'orribile non è rappresentato dalle menomazioni fisiche del protagonista, ma dalla cattiveria e dal vizio che si celano dietro i fisicamente normali. Nell'opera successiva, il kolossal film di formazione "Dune", appare per la prima volta un personaggio completamente "negativo" (il barone Vladimir Harkonnen), primo grezzo esempio di quel "male", di quella parte bestiale, violenta e pervertita che da ora in poi abiterà spesso i film di Lynch.
"Velluto blu" infatti è la prima opera che tratta del sottile e pericolo fascino che ha l'oscuro, il violento e lo sconosciuto sulla psiche dei cosiddetti "normali". Una coppia di giovani perbene, appartenenti alla classe media, è come presa dalla smania di sapere, conoscere, vivere quella parte violenta, perversa e cattiva che abita, vive e prospera dietro le belle facciate e l'ordine apparente. E' un fascino sottile e irresistibile che mostra quanto sia debole la ragione e come possa essere facilmente "macchiata", se non stravolta.
Inganno delle apparenze, fascino destabilizzante del male sono la colonna portante del serial televisivo "Twin Peaks", nonché del suo prequel "Fuoco cammina con me". Le vicende e il destino finale del personaggio di Cooper (la quintessenza della "ragione") sono indicative del fascino irresistibile e fagocitante che ha l'irrazionale e di come questo riesca facilmente a distruggere, a destabilizzare anche chi si crede forte e senza paura.
Male e bene da aspetti caratteriali e individuali si fanno sempre di più nei film di Lynch sostanza spirituale, onirica, quasi metafisica, e sempre di più tendono a confondersi fra di loro, ad essere quasi indistinguibili l'uno con l'altro. I protagonisti di "Cuore selvaggio" non sono degli stinchi di santo, ma del resto intorno a loro non trovano niente di positivo che li possa salvare o rendere felici; deve intervenire addirittura qualcosa di "magico" e metafisico a "salvarli".
Comunque è con "Strade perdute" che si apre l'ultima parte del percorso artistico di Lynch, quella in cui si cerca di arrivare all'essenza del mondo umano, sia in positivo che in negativo. In "Strade perdute" si certifica per la prima volta la perdita della cognizione certa e sicura del reale, si apre la strada alla crisi del concetto di identità, si constata la facilità con cui si cede agli istinti distruttivi. Il reale e l'onirico si mescolano, si interdigitano, concorrono a creare un quadro generale di continua insicurezza e angoscia, da cui non è più possibile uscire.
In mezzo a queste visioni desolanti del mondo umano, Lynch è come se si fosse improvvisamente fermato ad esaminare invece ciò che potrebbe esistere di sano e positivo nel mondo umano, l'essenza che lo potrebbe tenere unito. Ne è venuta fuori quell'opera dimessa e profondissima che è "Una storia vera", in cui si individua nel semplice, nel naturale, nel piccolo e nel modesto il valore vero e supremo della coesistenza umana.
E' stato però solo un lampo. Subito ritorna il buio, il buio sempre più fitto dello smarrimento e della perdita delle certezze e dei punti di riferimento "razionali". "Mulholland Drive" è una raffinatissima opera di decostruzione della percezione di reale e di immaginato, di vero e di falso, di bene e di male. Ancora più che in "Strade perdute" si fa fatica a distinguere l'uno dall'altro, tanto più che Lynch attribuisce alla parte "sognata" la varietà, la spigliatezza, l'ironia e la verve che in genere sperimentiamo da svegli; mentre la parte che corrisponderebbe al "reale" appare grigia, cupa, degradata e angosciosa. L'inconscio ci condiziona più di quanto immaginiamo e rischia addirittura di mescolarsi e sostituirsi a ciò che noi riteniamo reale.
Ed è quello che accadrà nell'ultima opera di Lynch, una delle vette artistiche del cinema degli ultimi anni. Fino ad ora era sempre la parte razionale e reale (distinta e riconoscibile) che evocava la parte inconscia e onirica (rimanendone travolta), con "INLAND EMPIRE" Lynch va oltre: supera del tutto la fondamentale distinzione percettiva umana fra reale e immaginato, per creare qualcosa di completamente nuovo e mai concepito prima. Ne viene fuori un flusso di coscienza all'apparenza caotico, ma in realtà stringente, terribilmente umano nella sua emotività angosciata e angosciante.
"INLAND EMPIRE" è un ambizioso esperimento artistico di portata epocale, un'opera radicalmente nuova, il punto di arrivo di un percorso di ricerca artistica espressiva originale che mira a fondere conscio e subconscio, realtà e sogno, in una nuova sostanza spirituale, destinata forse ad abitare gli animi umani nei secoli a venire.
Totò a fine anni Quaranta è stato impareggiabile interprete di "Totò cerca casa" film neorealista con inevitabile declinazione comica, in cui si affrontava la tematica della ricerca di un'abitazione da parte di un poveruomo rimasto senza un tetto dopo la fine della guerra per un bombardamento e costretto dapprima a vivere in un edificio scolastico requisito e poi a trovarsi altri rifugi fortunosi.
Negli anni Settanta Nino Manfredi è il capofamiglia di un numeroso nucleo di disadattati che vivono nelle baracche della periferia romana nel film di Scola, "Brutti, sporchi e cattivi", storia tragicomica in cui il tema dell'importanza di un'abitazione dignitosa ritorna prepotentemente in auge.
Dopo la sbornia del vacuo degli anni ottanta e novanta con storie improbabili di protagonisti ricchi e belli e le storie malinconiche del primo decennio del XXI secolo il nostro cinema (complice la crisi galoppante) vira nuovamente sulle tematiche neorealiste.Tornano gli operai, le case popolari e la casa che diventa un bene da inseguire.
Chiude il cerchio "Tutti contro tutti", riproponendo il dramma di un omino piccolo piccolo che si ritrova, nel 2013, a dover procurare un tetto alla sua famigliola.
E’ sempre triste assistere ad un riciclaggio di sex symbol. Veder sul grande schermo i divi di ieri, vecchi e malfunzionanti, rimpiazzati dai bellimbusti in materiale ecosostenibile di oggi.
Ma è ancor più triste quando il figaccione di un’epoca fa, che la morte anticipata non ha consegnato alla storia avvolgendolo di un’aura sempiterna, e che solo sullo sguardo da piacione, la natica d’acciaio ed il pettorale in tensione tracimante sudore aveva costruito la fama, non prende atto della propria data di scadenza, ostinandosi imperterrito a ricoprire il solito ruolo.
La sindrome di Peter-pan in video è presto smascherata e lascia strascichi di profonda desolazione, quando un primo piano ravvicinato svela inesorabile la caduta libera delle rughe facciali o al contrario, i solchi gonfiati dalle punturine di botox. George Clooney per correre ai ripari ha optato recentemente per un lifting testicolare, mentre Bruce Willis spera ancora che il luccichio della fallica pelata basti a distrarre dalle scene d’azione acciaccate in Die Hard numero 5. Harrison Ford e Michael Douglas appartengono ad un’altra generazione ed ultimamente trascorrono le giornate in ospizio, ma all’età di Tom Cruise (freschissimo di imprese mirabolanti in Jack Reacher), inseguivano le Missioni impossibili seducendo acerbe fanciulle, mentre alle attempate coetanee e partner femminili toccava interpretare regine del focolare e mogli cornute.
E persino Allen, che bello non è mai stato, fino a qualche anno fa ci faceva credere fosse possibile soddisfare una Téa Leoni in Hollywood Ending, capendo finalmente alla soglia dei 70 che forse non era più il caso di continuare.
Diamo dunque tempo a Richard Gere di acquisire un minimo senso del ridicolo e provare (non è mai troppo tardi) a svincolarsi dalle tenaglie dello star system che lo vorrebbero tuttora protagonista di scene bollenti. In Arbitrage, sveste i panni di un magnate della finanza immischiato in giochi di sesso e potere. I capezzoli sono orecchie da coker, l’aria è stanca e affaticata (complice forse la dieta vegetariana buddhista), e proprio non gli riesce più di sollevare Letitia Casta come l’operaia di Ufficiale gentiluomo.
Schemi ripetitivi, ad Hollywood come a casa nostra, a cui siamo abituati da tradizione secolare, ma che ultimamente hanno assunto una piega “Inevitable”, per usare lo slogan Chanel pronunciato da Brad Pitt (uno dei pochi che sopravvive grazie al talento recitativo più che ai ruoli da macho).
Anche se abbiamo avuto Amour a sensibilizzarci sull’amore all’ultimo stadio della vita e le dimissioni del Papa, che hanno lanciato un messaggio di speranza sul mettersi da parte, il mito della falsa giovinezza spinge per restare al potere.
E il 25 febbraio sapremo se l'Italia girerà l'ennesimo sequel de La morte ti fa bella.
“Samuele, corri a vedere, c’è un cammello alla porta!”, urlò stupita Trota. “Non è un cammello, oh mia adorabile, incolta sgualdrina. Ha una gobba sola, quindi è un dromedario”. “Anche il Geometra Bonfanti ha una gobba sola, ma non è mica un dromedario”, replicò ottusa Trota, non senza una punta di sarcasmo nella voce che non potei fare a meno di notare. “Sì ma il Geometra Bonfanti non è nemmeno un cammello, sciocca meretrice”, fui costretto a puntualizzare. “E che ne sai tu, mica l’hai mai visto un cammello. Magari non lo va a dire in giro perché si vergogna, come te che c’hai le corna ma mica sei una renna”, replicò lei. “Trota, questa discussione non ha senso, non possiamo sovvertire così l’ordine dei mammiferi! Il Geometra Bonfanti è per l’appunto un uomo, e sappi che posso smentirti quando voglio su questa cosa perché mi sono già fatto le ossa con mia moglie, che si ostinava a sostenere che il Geometra fosse un montone”, fu la mia risposta seccata.
A quel punto la tensione tra me e Trota era piuttosto evidente, ma per fortuna intervenne il dromedario ad allentarla: “Mi perdonino lorsignori, ma vorrei precisare di essere in realtà un alpaca, ossia un camelide di origine sudamericana dalla pregiata lana”, fece. “Ma non puoi essere un alpaca, hai una gobba, gli alpaca invece non ne hanno!”, gli urlai di rimando, subodorando che la bestia mi nascondesse qualcosa. “Quella non è una gobba, ma acne giovanile”, disse la bestia pelosa. "Nessuno ha chiesto il tuo parere, Trota", le risposi.
A quel punto feci accomodare l’alpaca, non prima di avergli chiesto se gli creasse qualche problema sedersi su una poltrona di pelle. “Affatto. Anzi, devo confessarle che nutro una sana antipatia verso i bovini da quando mia moglie è fuggita con un toro di nome Giuliano. Però le è andata male, ahahaha non si era accorta che era un bue, ci sarà rimasta malissimo quella vacca”, mi fece. “Non deve preoccuparsi, le mogli a volte sono così. Poi però capiscono, e quando lo fanno tornano sui propri passi”, esordii per consolarlo, “Devo anzi confessarle che mi capitò la stessa cosa”. “Cioè che sua moglie l’ha tradita e poi è tornata da lei?”, mi fece l’alpaca. “No, ovviamente”, risposi stupito da tale ottusità, “Che mia moglie mi tradisse con un toro salvo poi scoprire che si trattava di un castrato. Sono eventi in grado di sconvolgere una donna, sono stato costretto a mandarla in cura un anno da uno psicoterapeuta. Ho capito che era guarita quando mi sono accorto che era incinta. Dello psicoterapeuta. Ma mi dica del suo problema”.
Fu così che l’alpaca iniziò a raccontarmi la sua penosa storia. Era una storia fatta di abusi, soprusi e violenza, per fortuna a lieto fine visto che il barbone non sporse mai denuncia. Poi la bestia ci prese gusto, ma quando iniziò a raccontare di quella volta in cui distrusse una stanza di albergo con Mick Jagger ed Alex Infascelli strafatti di crack decisi che era ora di darci un taglio. “Senta, signor alpaca, io qui non ho tempo da perdere con mammiferi rivoltanti che non siano Trota. Mi dica cosa vuole da me e soprattutto quanto intende pagarmi”, gli dissi deciso. “ Non si alteri o le spezzo l’osso del collo”, mi fa lui, arrogante. Io scoppiai a ridere sardonico: “Prima deve trovarglielo il collo, idiota d’un finto cammello”. “Non a quel cesso di segretaria, a lei, Signor Spada”, mi fece lui, minaccioso. Mi fermai a riflettere. Avendo già utilizzato fin troppo l’espediente comico del fraintendimento, fui costretto a prenderlo alla lettera: “Va bene, signor alpaca, mi dica”.
“Innanzitutto io ho un nome. Mi chiamo Merda”, esordì lui. “Mia mamma pensò che chiamandomi così avrebbe scoraggiato gli allevatori dal sottrarmi le mie preziose pelli per farne un cappotto. Si immagina un ricco signore chiedere ad un altro ricco signore ‘Bel cappotto, di che cos’è?’ ‘E’ di Merda’. Ma comunque l’espediente ha funzionato, se ora sono qui. E sono qui perché c’è qualcuno che mi vuole morto”. Quel discorso mi aveva inquietato, così mi alzai e lo afferrai per il bavero del cappotto ed iniziai a scuoterlo, a scuoterlo forte, ma lui mi spinse via dicendo di mollare il cappotto che gli stavo rovinando la mamma. Dopo essermi scusato fui pronto ad ascoltare la seconda parte della storia di Merda, e quel che sentii mi privò del sonno per giorni.