Quando il visionario architetto László Toth e la moglie Erzsébet fuggono dall'Europa del dopoguerra nel 1947 per ricostruire la loro ereditŕ e assistere alla nascita dei moderni Stati Uniti, le loro vite cambiano per sempre nel momento in cui vengono approcciati da un ricco e misterioso cliente.
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anteprima cinematografica in 70mm, sala Top (Energia - Arcadia di Melzo), pochissimo pubblico. Avvio con sottotitoli non tradotti, musica incalzante, movimenti di macchina, montaggio serrato, chiaro scuri molto bui .... poi la Statua della Liberta, storta, titoli e ripresa della strada che corre. Grande incipit di un film che durerà 3h e 35 min + un intervallo di 15 minuti voluto dal regista, che scorrerrà senza mai una pausa. Già vincitore ai Golden Globe, favorito alla prossima notte degli Oscar e soprattutto, per un architetto, un tema particolarmente intrigante. Con questi ingredienti e questa "Overture", prima di parlare del film, non posso non citare il protagonista. Un intenso A.Brody, che, "tornato" fuori dal ghetto di Varsavia del "Il Pianista", interpreta ancora un sopravvisuto all'Olocausto, un uomo di regole, di principi, un'artista senza compromessi, rimasto imprigionato nelle ossessioni del suo vissuto, ora applicate alla sua arte. L'architettura deve essere un "impronta" in grado di migliorare la collettività. L'architettura è politica, perchè si occupa della "res pubblica" e, in effetti, la corrente architettonica "Brutalista" ha come fine, proprio l'unione delle persone attraverso l'utilizzo di materiali grezzi in forme imponenti. L'essenza del film è la dicotomia tra i 2 protagonisti, l'uno un mecenate non risolto emotivamente, che dall'architettura chiede continuità e celebrazione per il suo unico rapporto umano vissuto (sua mamma), l'altro un architetto distrutto emotivamente dal dramma dell'olocausto, che dall'architettura chiede soluzione al suo vissuto. Ne esce un confronto/scontro diviso magistralmente in 2 parti (il tema della dicotomia), la prima drammatica ma con un orizzonte di speranza, l'altra a mortificare ogni "speranza". Impossibile dare risposta a 2 ossessioni, con lo stesso "manufatto". Impossibile realizzare 2 sogni con la stessa opera. E così a distruggersi sono anche le altre relazioni, dove ahimè gli interessi, spesso meschini, dei singoli, non possono trovare soddisfazione comune. L'architettura può essere polifunzionale, può modificarsi e modificare il contesto, ma gli uomini no. Sono l'essenza del loro vissuto e come tali sono finiti. Terminano con le proprie debolezze, nei propri incubi/drammi. Possono finanziare o "progettare" un edificio, ma non possono viverlo. L'architettura se funziona, vivrà per chi ci sarà dopo, plasmerà l'intorno, modificherà abitudini e sarà il contenitore di cambiamenti. Ecco, forse mi sono fatto prendere la mano e sto scappando dal commento al film, ma i temi trattati sono tanti e complessi e per una volta le mie 2 passioni Cinema e Architettura si incontrano. La costruzione di un'assurda, e probabilmente brutta, cattedrale "nella prateria" non è solo il fil rouge del film, ma anche la chiave che usa il regista per raccontare visivamente l'orrore dei campi di concentramento, la freddezza della materia, l'incomunicabiltà delle persone. Così tra le umide e imponenti cave di marmo di Carrara, i cuniculi umidi e bui dell'edificio in costruzione, siamo tutti in cerca della luce, del simbolo che ci può elevare, eppure il comportamento degli esseri umani è degno di un film dei F.lli D'innocenzo. Tutti sono a loro modo non risolti, involontariamente cattivi, incapaci di comunicare; proprio in antitesi dell'opera architettonica, che era pensata per unire, per aggregare. La visione cinematografica trova sfogo in 2 scene agghiaccianti, estreme. Si esce dal film con il gusto della ruggine in bocca. Rimangono la regia eccellente (3 ore e mezza senza noia), le immagini fredde ma evocative (architettura e fotografia che perfetto binomio), le valide interpretazioni (piaciuto molto anche G. Pearce) e una colonna sonora che rimarrà; eppure nonostante tutto c'è qualcosa che mi è mancato. Qualcosa che non mi ha finito. Anche dopo 3 giorni, non è decantato del tutto.