Sulla carta
Paris-Manhattan, esordio della regista francese Sophie Lellouche, lasciava prefigurare una versione capovolta di
Io e Annie, in cui i rapporti uomo-donna venivano messi sotto la lente d’ingrandimento e cinicamente scrutati da un’onniscienza femminile.
L’amara conclusione che l’amore sia solo nutrimento egoistico e bisogno costante di uova invece, svanisce senza complicazioni nella parabola romantica di un incontro banale, spacciato per folle e irrazionale quanto la frequentazione di un umano con una pecora (la strana coppia di
Tutto quello che avreste voluto sapere sul sesso ma non avete mai osato chiedere è citata a sproposito come modello di riferimento). Sono tanti i punti interrogativi che aleggiano spontaneamente nella mente di una fan di
Woody Allen, che si ritrova a guardare un film su una fan di Woody Allen, senza scorgere alcunché di se stessa. Accigliati dal fatto che la suddetta protagonista non appaia né misantropa, né ipocondriaca, né debole di nervi; interdetti dalla totale assenza di crisi depressive, ossessive, fobiche, maniacali e da una neppur accennata vena di sarcasmo nella personalità, ci si raggela apprendendo della sua fede per la religione ebraica e del perfetto allineamento ai valori della mentalità borghese. L’ingenuotta Alice infatti, persegue verità irremovibili in cui crede ciecamente, aspira alla felicità eterna e sogna il matrimonio come una Bridget Jones qualsiasi. Posta così, gli insegnamenti del mentore cinematografico parrebbero travisati e buttati al vento. E in effetti alla fine si scopre che crescere a pane e
Manhattan le è servito unicamente per ripararsi dai complessi e dall’emarginazione dell’età adolescenziale, e che le influenze salvifiche del mito non provengono affatto dalle lezioni (bogartiane) di educazione civica e sessuale, ma dal suo florido bagaglio artistico, letterario e musicale. Ma perché allora scomodare Allen e non direttamente Flaubert? Perché non farla dialogare con il poster di Karl Potter? O con Moccia, se si ritiene che la vita sia colorata da cascate di cuoricini rosa. Forse perché in Francia la formazione culturale del maestro newyorchese ha appeal sicuro sul pubblico, specie dopo
Midnight in Paris. O forse perché ci vuole il supporto esterno di un’identità facilmente riconoscibile, forte e precostituita, a reggere la piattezza caratteriale di personaggi sviluppati in forma anonima. In ogni caso, se l’autrice si fosse risparmiata la storiella da baci perugina limitandosi a sfruttare l’arte in termini bovaristici e a rielaborare in maniera originale i clichés consolidati, avrebbe perlomeno soddisfatto i palati dei nerd cinefili, che con l’immagine iconografica di Woody parlano davvero. Parlano ma ultimamente non ottengono risposta, ed è anche probabilmente alla vuota confezione della recente pellicola da cartolina
To Rome with love che va attribuita la colpa di furbe operazioncine commerciali come questa.
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Nel 2006
Shane Meadows gira quello che insieme a “
Dead man's shoes” è il suo film più riuscito. “
This is England” è infatti l'espressione più sincera e sentita di una poetica cinematografica che delinea gran parte dei tratti distintivi del nuovo linguaggio filmico britannico, di cui Meadows è uno dei massimi esponenti. Quattro anni più tardi, il regista inglese decide per un'incursione nell'universo televisivo, che fortunatamente sta attirando a sé molti registi fino ad ora “confinati” al grande schermo; le virgolette sono d'obbligo ed è anzi necessario precisare: il pensiero di chi scrive è ben lontano dal considerare il cinema riduttivo o addirittura inferiore allo strumento televisivo; è al tempo stesso, tuttavia, particolarmente propenso ad elogiare le potenzialità insite nei prodotti seriali, ancora troppo etichettati come meno significativi, più semplicistici e non in grado di toccare le stesse vette raggiunte e raggiungibili da una classica pellicola cinematografica. Un'etichetta che definire fuori fuoco sarebbe riduttivo. Di esempi se ne potrebbero fare parecchi, ma non è il caso di andare troppo oltre considerando che proprio Meadows ha confermato appena un anno fa l'erroneità della classificazione di cui si sta scrivendo. Nel 2010, infatti, scrive e dirige per la televisione una miniserie in quattro puntate, riprendendo proprio "This is England", capolavoro che non tutti rischierebbero di rovinare ritoccandolo, peraltro non semplicemente con un classico sequel, ma addirittura optando per un diverso registro linguistico. Lui invece pensa bene di provarci e tira fuori una miniserie che non ha assolutamente nulla da invidiare alla quasi omonima pellicola. Potente quanto quest'ultima, “
This is England '86” è senza mezzi termini meravigliosa.
Le basta davvero poco per riportare alla mente e al cuore dello spettatore la parte più emozionale della pellicola; quell'anima viscerale e viva che la rende così riuscita, così credibile e così vera. Un'inquadratura, una frase, un accento, come anche una canzone, una luce o un'espressione; si ritorna all'interno di un'atmosfera, pur essendone usciti ben quattro anni prima, senza sforzo alcuno, anzi meravigliandosi del fatto di esserci riusciti in un lasso di tempo così ristretto: Combo e Shaun in macchina, immersi in quella luce tutta inglese che il cinema di Meadows sembra afferrare con assoluta facilità; appena qualche scambio e “This is England” sembra non essersi mai concluso.
Del resto è quanto accade anche col recente “
This is England '88”, altra miniserie in tre puntate andata in onda lo scorso anno in Inghilterra – presentata anche come seconda stagione della miniserie precedente.
Si apre con tre parentesi senza particolari cornici cinematografiche, una per ognuno dei tre personaggi più significativi: Lol, Woods e Shaun (con Smell). Il vocabolario e l'accento sono già sufficienti a riaprire le porte di un'atmosfera assai familiare; immediatamente dopo parte “
What Difference Does It Make?” dei The Smiths, sulle parole di Margaret Thatcher che annuncia di avere la cura per quel “British Disease” che aveva messo in ginocchio la Gran Bretagna. È la prima di una veloce sequenza di istantanee che delineano gli anni '80 sulle note di una canzone suonata da un gruppo creatosi e scioltosi proprio in quegli anni. Le porte a questo punto più che aperte sono spalancate, diciamo anche scardinate, e ancora una volta ci si ritrova senza quasi accorgersene proprio lì dove Meadows intende portarci.
Niente di nuovo, comunque. Il regista inglese ci tiene particolarmente ad immergere le sue storie in un contesto socio-temporale riconoscibile al fine di dare spessore e credibilità a quanto raccontato. È uno degli aspetti in assoluto più riusciti di “This is England”. La scelta delle brevi sequenze in successione veloce è infatti quanto mai completa. Si passa dalle manifestazioni alla politica, dalla fame nel mondo alla presa di potere di futuri dittatori, dallo sport alla televisione, dai disastri alla vita quotidiana, dalle stragi all'euforia; non si potrebbe, al termine, restare fuori da quegli anni neanche volendo.
Anni di cambiamenti, quindi, che in gran Bretagna si portavano dietro gli strascichi di una crisi che aveva costretto la gente a scendere in piazza, a ricalcolare il proprio futuro come il proprio benessere. Un disagio che si riflette con forza anche in personaggi che ormai si è imparato a conoscere e che Meadows si preoccupa, come si diceva, di tenere ben incollati al contesto. La sequenza d'apertura è già per quel disagio, inquadrato sul volto di Lol, alle prese con i fantasmi di quanto accaduto al termine di “This Is England '86”. I giorni delle bravate, della vita sregolata, delle risse e delle stronzate sono finiti. Lol si sveglia alle 6.07 perché chiamata dalla figlia, Woods alle 7.30 per andare in ufficio, Shaun altrettanto presto per andare al college. Questa volta la miniserie sembra un racconto di formazione tardiva e resa difficile da un malessere o un'insoddisfazione quanto mai presenti. Il distacco dei tre protagonisti, non a caso, dalla vita in cui li abbiamo conosciuti non è solo emotivo ma anche concreto; non li si vede mai con il resto del gruppo, bensì da soli e diretti verso un cambiamento testardamente voluto ma non sentito (Woody), oppure imposto (Lol) o, ancora, né sentito né cercato ma neanche rifiutato (Shaun).
Il cambio di registro lo si avverte chiaramente. La spensieratezza che nonostante tutto si avvertiva in precedenza, questa volta non la si avverte più. I toni, al contrario, si incupiscono notevolmente, tanto che il grigiore britannico diviene anche più grigio. A smorzarli, solo quell'ironia che fortunatamente non viene mai meno. Meadows vuole descrivere l'incertezza ed il disagio non solo come fantasmi ma come presenze reali ed ingombranti; dà loro il volto di Mike, che pur essendo frutto dell'immaginazione di Lol non va via dall'inquadratura quando Lol esce fuori dalla stessa; la telecamera, anzi, resta ferma su di lui, facendo passare un'inquietudine difficile da ignorare.
È proprio la differenza sostanziale nelle atmosfere e nello spirito a rischiare di provocare nello spettatore un'apparente insoddisfazione. 'Apparente' perché in realtà una volta metabolizzata la serie appare assai coerente nel suo trascinare i protagonisti in un passaggio evolutivo fondamentale, che diviene chiaro in una delle frasi più significative pronunciate da Woody nel finale. Al termine, nel bene o nel male, i caratteri appaiono più consapevoli delle loro scelte, più consapevoli di se stessi; sembrano aver accettato i loro trascorsi ed essersi riappacificati con un presente che non non solo non stavano vivendo, ma che stavano addirittura rifiutando nascosti dietro chissà quali aspettative o delusioni.
Il metabolismo rende inoltre evidente quanto bene si adatti lo stile registico di Meadows al volto in parte nuovo di questo ennesimo capitolo. Il malessere e il senso di incompiutezza vengono descritti in maniera perfetta da quel suo sguardo tipicamente viscerale, diretto e potente; asciutto ma senza intenzione alcuna di rinunciare all'uso sistematico delle musiche come di quella fotografia ricercata ma mai eccessiva.
Del “This is England” che conosciamo a questa miniserie non manca nulla, quindi, se non una durata maggiore. Si ha infatti la sensazione che il tutto duri davvero poco e che con qualche altro episodio il risultato sarebbe stato ancor più convincente e a quel punto inattaccabile. Non è un caso che la risoluzione possa apparire per certi versi sbrigativa o comunque compattata fino a rientrare nel minutaggio, e probabilmente lo è; ciononostante la riuscita dello stesso non viene compromessa in nessun modo, grazie e all'aspetto ironico – affidato ad un personaggio, Woody, meravigliosamente a metà tra il credibile e il farsesco - che pochi sanno mischiare al dramma come sa fare Meadows, e ai sempre ottimi dialoghi e, più in generale, alla gestione registico-narrativa che rende Meadows il cineasta che è.
Tra qualche mese dovrebbero iniziare le riprese di “This is England '90”. Il 2013 ha già un punto a suo favore.
Pubblicato il 08/11/2012 08:35:24 da
elio91Partirà a Novembre il primo ciak di "Venus in Fur", la venere in pelliccia, il nuovo film annunciato da
Roman Polanski. La protagonista sarà la moglie
Emmanuelle Seigner con cui torna a lavorare dopo "
Roman Polanski". La trama sembra già ricordare una sorta di
Luna di Fiele 2, sempre con le dovute differenze: l'erotismo al centro della vicenda, la Seigner come protagonista, tratti di commedia nera; inoltre Polanski pare sempre più propenso a girare sceneggiature teatrali: "Venus in Fur" è stato un successo a Broadway cosi come "
Carnage" derivava da una piece teatrale. Inutile stare a rimarcare la trama che sarà presumibilmente una rilettura del libro di Masoch.
Mentre da un lato accade questo, sull'altro versante, quello personale, Polanski continua a non vedersela proprio bene: è certo che ormai Samantha Geimer, colei che fu la vittima dello stupro negli anni '70 da parte del regista polacco, scriverà un libro autobiografico in cui già dal titolo avrà ampio risalto la questione della violenza sessuale e, manco a dirlo, Polanski in primis: " The Girl: Emerging from the Shadow of Roman Polanski" sarà il titolo. è paradossale e cinico pensare che, in fondo, la vita di Roman Polanski si sia ridotta a questo disturbo bipolare, un fossato enorme dove vediamo da una parte il regista impeccabile nonché uno dei migliori sulla piazza, dall'altra il violentatore senza pietà che adesso, a quasi 80 anni suonati, sta subendo processi mediatici, giuridici e "psicologici" da parte di mezzo mondo a quarant'anni dalla vicenda. Polanski scappò, non è un innocente, è sacrosanto ricordarlo; resta la perplessità sul perché Samantha Geimer, che disse di averlo "perdonato e dimenticato", torni ancora su una vicenda su cui ha parlato poco e sempre in maniera molto pacata e lontana dalla spettacolarizzazione. Certo lei è l'unica che avrebbe il diritto di farlo, a differenza di una modella sconosciuta che per i suoi cinque minuti di notorietà annunciò in pompa magna un'autobiografia dove un capitolo intero sarebbe stato dedicato alle molestie subite da ragazzina da Roman Polanski. Perché inevitabilmente tutti hanno da sempre tentato di cavalcare l'onda mediatica di una storia piena di risvolti non facili, mille sfumature, dove sembrava che i ruoli vittima/carnefice fossero ben definiti. A 35 anni di distanza dalla violenza sulla ragazzina, adesso possiamo anche noi fare i cattivi come nella migliore tradizione cinematografica polanskiana e vedere come i ruoli si siano ribaltati sotto molte prospettive: non che la Geimer sia una carnefice, ma forse... è Polanski ad essere diventato a suo modo una vittima? è una black comedy la sua vita, se la vogliamo vedere cosi, cinica e ambigua al punto giusto: tanto che ormai dare un giudizio su ciò che sta accadendo diventa impossibile. Possiamo solo restare a guardare. L'assillo è: schierarci dalla sua parte o contro di lui è lecito? Dal bambino che perde la madre e scampa ai campi di concentramento, al vedovo e quasi padre che viene privato di moglie incinta dalla setta di Manson, fino alla violenza sessuale su una tredicenne e la grande fuga... e una vicenda che si riaccende in Svizzera dopo tre decadi di quasi silenzio e si protrae tra nuove confessioni e pubbliche scuse. Questo accade solo nei film alla Roman Polanski.
E poi così, di colpo, dopo 2 stagioni intere, o quasi, una serie che ha mostrato fin a quel momento limiti evidenti e debolezze di vario tipo, generando nello spettatore nient'altro che noia, irritazioni finanche cutanee e rabbia per l'enorme occasione sprecata, dimostra che in realtà non è che non fosse in grado di rendersi valida, semplicemente, forse, non le andava. Ho sempre criticato
The Walking Dead con molta convinzione. E con la seconda stagione, poi, ho rincarato la dose ogni volta che me n'è capitata l'occasione. Era infatti diventata una sorta di
Beautiful in un mondo zombiano senza zombie. Quest'ultimi erano quasi del tutto spariti e della trama non restavano che le dinamiche interpersonali tra caratteri di dubbio interesse, delineate attraverso dialoghi quanto meno deboli. Sono arrivato ad ipotizzare che lo scopo primo dei creatori fosse invero quello di metter su una critica al mondo odierno tratteggiando gli umani come i veri zombie, e gli zombie come la giusta cura, come coloro che avrebbero risollevato le sorti del mondo a forza di morsi. Si sarebbe spiegato così il perché della ormai quasi totale assenza di uccisioni violente di
walkers e il perché della gestione così urticante dei personaggi.
Non abbandono mai una serie che ho cominciato o di cui ho visto più di qualche puntata. Deve sfinirmi sul serio perché io lo faccia. “The Walking Dead” è riuscita nell'impresa. A quattro puntate dalla fine della seconda ho lasciato, non ce la facevo più. Volevo mordere Convulsion-Shane, l'uomo che fa dieci scatti con il capo nel dire una sola frase. Di due parole. Volevo uccidere Rick e le sue pippe un tanto al chilo, la sua mancanza di carattere. Volevo picchiare sua moglie, per evitare di far nascere il bambino che portava in grembo in quel mondo di zombie vivi. Volevo prendere a pedate la testa del vecchio, perché parlava troppo, e quella di Hershel, perché semplicemente era troppo stupido per non morire. Davvero, ero arrivato al limite. Questo mesi addietro. Poi un paio di giorni fa decido di riprendere in mano le ultime 4 puntate della stagione, anche in vista dell'inizio della terza. Son sincero, lo avevo fatto con l'unica intenzione di venire qui a sfogarmi, scrivendone di ogni, e per riderci poi su, insieme. Ed è successo l'impossibile. Gli ultimi episodi mi son piaciuti; intendiamoci, qualche cazzata qua e là c'è sempre, ché altrimenti non sarebbe TWD, ma mi son piaciuti.
In appena 120 minuti la serie dimostra, come scrivevo inizialmente, che in realtà non era incapacità la sua, ma pigrizia o qualcosa di simile. Dimostra, in appena 120 minuti, che le posizioni dei vari personaggi, i loro caratteri non erano poco interessanti o poco credibili, né poco condivisibili e realistici, ma solo sviluppati male, senza la giusta introspezione. Il loro fascino potenziale cadeva sempre più rovinosamente sotto i colpi insistenti di dialoghi banali e di sequenze tutt'altro che efficaci. Ed è così che Rick inizia a tirar fuori un po' di carattere tra la fine della seconda stagione e l'inizio della terza; che il vecchio affianca un po' di pathos (trasmettendo di conseguenza una certa empatia) alle sue solite menate, che diventano pertanto meno menate e più riflessioni circostanziate e funzionali al racconto; che la cartolina un po' "Beautiful" inizia a strapparsi e il confine buoni/cattivi inizia a scemare; che Hershel tira fuori un po' di palle e comincia ad uccidere zombie con frasi ignoranti ma molto fighe tipo “Venite qui!!” manco fosse Rambo; che Carl inizia a smettere di comportarsi come un adulto e comincia finalmente a fare stronzate da bambino che più semplicemente si crede un adulto; che Shane, addirittura, diviene miracolosamente un personaggio di spessore. Dopo essere stato irritante nella sua pochezza per svariate puntate, fa un discreto salto di qualità con la fine della puntata 2x10: neanche 30 secondi, nessun dialogo, solo una serie di ideali campi-controcampi tra Shane e il se stesso riflesso in uno zombie solitario che vaga con un andamento che quasi sembra una ballata triste; il tutto accompagnato dall'ottima “
Civilian” degli
Wye Oak. La scena è inaspettatamente potente ed è il simbolo della differenza evidente di qualità tra la serie come la conoscevamo e gli ultimi episodi. “E ci voleva tanto?”, vien da chiedersi.
E così la gente comincia a morire seriamente, nel senso che le morti si sentono, perché i personaggi generano ora un minimo di empatia in più. Gli zombie tornano sullo schermo, tornano a mangiare gente, tornano ad essere il nemico anche per lo spettatore. Si accennava in precedenza che non si sta scrivendo affatto della ripresa del secolo, ma è giusto sottolinearla comunque, così come si sottolineano i limiti quando ci sono. La terza stagione è cominciata da poco e sembra avere anch'essa il suo ritmo, sembra essere discretamente godibile. Magari è stato un sussulto lungo qualche puntata, magari no. Speriamo di no.
Pubblicato il 06/11/2012 16:00:41 da
peucezia
Allampanato, dall'espressione a metà tra il preoccupato e il malinconico,
Valerio Mastandrea, attore romano della generazione dei quarantenni (e quaranta sono i suoi anni giusto nel 2012), si contraddistingue sin dalla sua apparizione sul grande schermo nell'ormai lontano 1994 per interpretazioni di giovane sfigato, magari simpatico ma sempre poco fortunato.
Gli tocca in sorte filmica una famiglia sui generis e lui, che pure non è il massimo della stabilità, si deve fare in quattro per tenere in piedi la baracca e, poiché la fortuna arride agli audaci, ci riesce quasi sempre!
Se la fidanzata di turno lo ha mollato per un giovane belloccio magari di colore, perché comunque è una progressista, alla fine lui, grazie alla sua espressione mogia, si ritrova nuovamente insieme alla sua bella, quasi a sottolineare quello stellone italico che aiuta chi risica.
Gli anni passano in fretta e da giovane precario o studente o fidanzato incerto Mastandrea, dopo una parentesi in costume alle prese con Napoleone in esilio, è un uomo in crisi, magari docente che non ci crede più, con madre terminale o, ancora, separato con moglie crudelissima che non esita a buttarlo sul lastrico, o serio lavoratore che fatica a tirar su due figli in sostituzione di moglie persa nelle sue cogitazioni. E sempre tocca a lui rimediare ai guai che hanno combinato gli altri pure se lui non se la passa mai troppo bene. E non a caso in teatro è stato un perfetto Rugantino, giovane sbruffone, nullafacente che però si autoaccusa di un delitto mai commesso solo per amore... che romanticone!
Povero Valerio, eroe dei nostri giorni, simbolo di chi arranca ma pure va avanti e riesce a stento a ingranare. Se un giorno lo ritroveremo in un ruolo di uomo ricco, felice e perfetto forse sarà finita anche la sempiterna crisi che attanaglia il povero Stivale italico?