Geppetto, un vecchio intagliatore, riceve un pezzo di legno perfetto per il suo prossimo progetto: un burattino. Una volta terminata l'opera, accade qualcosa di magico: il burattino prende vita e inizia a parlare, camminare, correre e mangiare, come qualsiasi bambino. Geppetto lo chiama Pinocchio e lo alleva come un figlio. Per Pinocchio, però, non è facile essere un bravo bambino: lasciandosi portare facilmente sulla cattiva strada, capitombola da una disavventura all'altra in un mondo popolato di fantasiose creature. La sua più cara amica, la Fata Turchina, cercherà di fargli capire come il suo sogno di divenire un bambino vero non potrà mai avverarsi fino a quando non cambierà modo di vivere.
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Freak, decadente, grottesco e parzialmente fuori target: il Pinocchio di Matteo Garrone è la più respingente e autoriale delle trasposizioni dell'opera di Collodi. È in tutto e per tutto una favola di matrice garroniana pur restando in ogni singolo passaggio il Pinocchio che tutti noi conosciamo, che è poi il limite stesso del film, quello che rende il passion project del regista capitolino riuscito soprattutto dal punto di vista estetico ma narrativamente e concettualmente poco virtuoso, a "impatto zero" dal punto di vista emotivo. Roberto Benigni è un Geppetto di miracolosa miseria, delicato e toccante, mentre il "figliolo" di legno interpretato da Federico Ielapi è molto meno incisivo e macchiettistico. Il parterre di personaggi secondari è più o meno funzionale alle esigenze del cineasta e al suo stile fiabesco tra realismo magico e rovinosa povertà, che bene si adatta in fondo all'anima stessa di Pinocchio. Se solo non fosse una delle storia più famose, riproposte e abusate al mondo.