Riguardavo l’altra sera l’immenso lavoro di
Buñuel in compagnia di alcuni loschi personaggi. Al termine della visione è nata una discussione sul significato del film che in poco tempo è sfociata in una rissa con molteplici morti e feriti, auto in fiamme, bidoni rovesciati e banche fatte saltare in aria. Qualcuno ha anche tentato un rapporto sessuale non protetto con Ronald McDonald. Riuscendoci.
Ma non è questo che ci interessa, sto chiaramente divagando per ottenere qualche parola in più. Il succo di quel discorso era se questo enigmatico e all’apparenza semplice, nella struttura intendiamoci, lavoro del Maestro surrealista fosse o meno ancora attuale, ovvero ci si chiedeva se l’opera avesse detto l’ultima parola artistica su quella misteriosa attrazione che guida un uomo e una donna verso logiche inspiegabili. Il film è sicuramente visto sotto il profilo di un uomo, ma è anche vero che i personaggi di Buñuel non sono da prendere come profili realistici bensì come astrazioni, come raffigurazioni di ideali, culture, classi sociali, virtù (poche) e difetti (tanti). In questo caso abbiamo, oltre a quello che è già stato citato, anche le astrazioni di un uomo e di una donna, come in un Kandinsky o un Mirò del Cinema, che non riescono ad accomunarsi, procedendo così in un’eterna spirale che sa tanto di girone infernale.
Si può inoltre definire “Quell’oscuro oggetto del desiderio” un film romantico? Un film che parla di sentimenti sicuramente, ma è possibile racchiuderlo nell’accezione contemporanea di romanticismo? Secondo il mio poco illustre parere la risposta è si. Il film è, anche con tutti i suoi sottotesti, compresi quelli surreali, un film sull’amore.
Ma si diceva di sottotesti surreali, il mondo che ruota attorno a Don Mathieu è senza senso eppure lui non si accorge di niente, a volte tralascia volontariamente questi avvenimenti preoccupato unicamente della sua storia d’amore con la bella Conchita. Quel mondo è folle, l’unica cosa importante sembra essere la storia, che però è ancora più incomprensibile, è il perno attorno al quale girano gli eventi dissennati e catastrofici che avvengono all’esterno, anzi forse ne è proprio il punto di partenza. È il mondo visto da Mathieu, reso folle da una storia d’amore che sembra impossibile, così come sembrava impossibile che i borghesi dal fascino discreto riuscissero a sedersi a tavola e mangiare in pace. Lo sdoppiamento della protagonista femminile, interpretata di volta in volta da due attrici diverse, è un altro elemento della follia dell’uomo innamorato, che non capisce, non vede, non distingue. È un incubo, è la realtà, è tutte e due le cose. Sembra non esserci fine, né speranza.
Comunque lo si veda è un film romantico, è un racconto di gente innamorata, che come nella vita vera non deve avere per forza un lieto fine, anzi in questo caso non ha neppure una fine. Tutto ricomincia e un’esplosione chiude il film. Quindi si, il film è ancora attuale, perché si ispira alla vita vera, pur rileggendola con gli occhi dell’arte, della trasfigurazione dei personaggi, della non tangibilità degli stessi. Se non ci credete consultate pure lo Scarfotti 2012/2013, tanto è quasi Natale e i bambini si divertono a leggerlo alla luce di una torcia dentro la tenda allestita nella loro cameretta. Un oggetto utile, pratico, comodo, dilettevole, si porta in tram, dà un tono alla casa e talvolta aspira anche la polvere nei punti che sembrano irraggiungibili con una scopa normale.
Le ruote di una bicicletta diventano il simbolo dell'avanzare del tempo, oltre un mezzo per percorrere un tragitto, lo stesso tragitto reiterato, inesorabile, instancabile. Una poesia di immagini e musica della durata di 8 minuti, di incredibile impatto emotivo, racconta l'amore tra un padre e una figlia, interrotto un giorno dalla scomparsa del padre, ma mai terminato dalla potenza di un sentimento capace di andare oltre i limiti terreni. "
Father and daughter" è un capolavoro impressionante dell'olandese Michael Dudok De Wit, il quale ci racconta di un rapporto indissolubile tra un padre e una figlia. Lei percorre la stessa strada, nella speranza di ritrovare il padre. Lo stesso percorso in bicicletta, mentre il tempo passa e le cose cambiano, i paesaggi mutano, lei stessa diventa prima ragazza, poi donna, poi anziana. Ma quell'amore non muta e vince lo scorrere del tempo. Quelle ruote sono i bastoncini legati in un mazzetto di cui ci parla Alvin Straight in "
Una storia vera" di
Lynch, sono allo stesso modo la cassetta delle lettere di Carl in "
Up".
Sono i simboli di legami inscindibili tra genitori e figli, tra fratelli, tra coppie. E' l'Amore che non muore, nonostante tutto.
Ognuno di noi dovrebbe possedere un pezzettino di questa ricchezza, talvolta non ci facciamo caso e diamo per scontato il fatto di esistere. Giusto ieri sera ho ripensato a mia nonna, a quanti ricordi pullulano ancora nel mio cervello e nel mio cuore, malgrado avessi solo sei anni quando è morta. Ho ricordato anche improvvisamente come molte cose sono ineluttabilmente cambiate, andate perdute. Forse dovremmo fare di più, prenderci cura con più forza dei legami delle nostre vite. Un giorno non ci saranno più, perché il tempo sono le ruote di una bicicletta che avanza, che scorre. Ma noi possiamo sempre pedalare a ritroso e ripercorrere quello che abbiamo rinchiuso tra i ricordi.
Il tempo non ci dà scampo, ma tenerlo a mente può aiutarci a non perdere per strada unioni preziose.
“Vola il tempo lo sai che vola e va, forse non ce ne accorgiamo ma più ancora del tempo che non ha età, siamo noi che ce ne andiamo e per questo ti dico amore, amor io t'attenderò ogni sera, ma tu vieni non aspettare ancor, vieni adesso finché è primavera”
Rispettivamente classe '31 e classe '29,
Paolo e
Vittorio Taviani si possono certamente definire registi con una onorata carriera alle spalle. Certo non sono i primi nomi che vengono in mente in un'ipotetica classifica dei migliori cineasti italiani di sempre, ma è indubbio che la loro carriera non è stata avara di soddisfazioni, in primis la Palma d'oro a Cannes per
Padre padrone.
Ad ottant'anni suonati dopo una carriera di tutto rispetto, cosa ti combinano? A dispetto di chi li considerava "bolliti" (e anche chi scrive ci si mette, facendo pubblica ammenda), lasciano la classica pellicola per passare al digitale e con una troupe scarna ma perfettamente funzionale all'ambientazione, dirigono quello che probabilmente è stato il miglior film italiano della precedente stagione cinematografica:
Cesare deve morire.
Con l'ausilio fondamentale di Fabio Cavalli, vero e proprio tramite tra gli attori carcerati e i Taviani, il carcere di Rebibbia diventa l'immenso palco della tragedia shakespiriana in cui gli orrori del proprio passato sono esorcizzati entrando nei personaggi della piece teatrale e creando una forte empatia tra spettatori e film. Una pellicola che coinvolge e sconvolge. Documentario, teatro e cinema sono fusi in maniera perfetta. Il carcere rimane il luogo di punizione per eccellenza, ma può essere il luogo della redenzione dello spirito umano. La scoperta dell'Arte, assorbirla, può lenire gli orrori di un passato fatto di scelte sbagliate ed errori a volte non più riparabili. Una speranza di rinascita all'interno delle sbarre.
E' notizia di poco tempo fa che Cesare deve morire ha ricevuto tre canditature agli EFA europei (miglior film, miglior regia, miglior montaggio). Altre piccole soddisfazioni per i fratelli di S.Miniato. La concorrenza tuttavia è fortissima,
Amour di Haneke in primo luogo, il grosso riscontro perlomeno dal punto di vista commerciale di
Quasi amici della coppia Nakache/Toledano,
Il sospetto di Vinterberg,
Shame di McQueen e l'outsider Barbara di Christian Petzold.
Concorrenza che si ripresenterà insieme ad altri rappresentanti degli altri continenti per ciò che riguarda la successiva notte degli Oscar.
Cesare deve morire è stato scelto per rappresentare i colori italici alla prossima parata di stelle di Los Angeles nella categoria del miglior film straniero. Speranze? Non molte ed in fondo, a livello personale, vado anche di scaramanzia considerato che l'Italia è ancora scottata dall'esperienza negativa di
Gomorra, Gran Premio Speciale della Giuria a Cannes (ad ex aequo con
Il Divo di Sorrentino) e dopo aver fatto incetta di premi proprio agli EFA europei. Risultato: Gomorra non è entrato nemmeno nella cinquina finale creando un certo stupore, visti gli altri componenti di quella cinquina.
Con il film dei Taviani è consigliabile volare basso. Arrivare alla vittoria dell'Oscar sarebbe un risultato quasi miracoloso, fare parte della cinquina finale per aggiudicarsi la statuetta sarebbe già un successo.
Certamente con questa pellicola troverebbero pane per i loro denti (e lo era anche per Gomorra) tutti coloro che periodicamente accusano il cinema italiano di eccessivo provincialismo.
Un'accusa che in qualche caso è talmente risibile che, prendendo in esame certa stampa ed esponenti del cinema estero, ci vedono ancora al livello di pizza e mandolino.
Una web serie attualmente sta avendo un discreto successo in rete:
Kubrick - Una storia porno, che può essere vista comodamente su youtube sul canale The Jackal. Ovviamente si tratta di un piccolo assaggio di tre parti per un totale di circa quaranta minuti. In poche parole quello che può essere definito un pilot televisivo. Interessante è la modalità di approccio, che salta direttamente le forche caudine di produttori e soprattutto distributori, per proporsi direttamente al pubblico e vedere se un certo prodotto può avere o meno riscontro.
Gli indici di ascolto televisivi possono andare a farsi benedire perchè in questa modalità certamente saranno importanti le visualizzazioni e la capacità degli autori di essere esaustivi nei confronti del pubblico. Il contatto diretto con quest'ultimo, fondamentale, elemento è importante perchè ti pone direttamente ad essere messo di fronte ad eventuali critiche negative, come dall'altro lato a ricevere dei suggerimenti preziosi per il miglioramento del prodotto. Vantaggi che comunque compensano gli svantaggi di operazioni di questo tipo.
Perchè Kubrick? Semplicemente un omaggio ad uno dei più grandi cineasti di sempre, che fra i suoi progetti mai realizzati c'era appunto la realizzazione di un film porno in grande stile, con una troupe professionista del cinema "ufficiale" e con un cast di attori che dovevano eseguire le loro performance sessuali senza l'ausilio di professionisti del settore porno.
Si tratta proprio di questo infatti, il porno. Se ne parla, si pratica, si disquisisce in molteplici dibattiti, ma televisione e cinema finora hanno fatto orecchie da mercante nel nostro belpaese. Kubrick – una storia porno non si propone di sdoganare il genere, infatti qui non c'è nulla di porno (non ancora, almeno) ma affrontare una moltitudine di argomenti attraverso uno sguardo inusuale e certamente poco battuto da fiction e cinema italiano.
La storia è molto semplice: tre giovani autori non riescono a trovare fondi per girare dei cortometraggi di impegno sociale, quando all'improvviso ottengono una risposta positiva dai numerosi curriculum inviati. Solo che una volta giunti dal produttore, scoprono che opera nel mondo del porno e gli offre una sostanziosa somma per girare un corto di cinque minuti in 48 ore.
Prende il via una sarabanda di situazioni comiche godibilissime, tra la scelta della location, i provini per la scelta dell'attore maschile (decisamente facile), i provini per l'attrice femminile (decisamente più difficile), la sceneggiatura che deve stare al passo con i tempi ed evitare clichè.
Il formato di questa serie è molto professionale, strizza l'occhio a
Boris, ed offre un cast di attori sconosciuto ma in grado divertire grazie ad una buona caratterizzazione dei personaggi. Un prodotto a cui non manca una certa brillantezza che tiene il livello delle allusioni e dei doppi sensi al minimo consentito e che pone dei buoni spunti di base per trattare temi, come la sessualità in primis, che non sono certo da cestinare. Personalmente non mi è dispiaciuta affatto e dopo queste tre mini-parti, non manca lo "stimolo" per vedere come va a finire.
"Il mondo del porno sta morendo. E' colpa di un virus: si chiama AMATORIALE!" Dell’ultima edizione del festival di Roma si può tracciare un bilancio diverso a seconda dei punti di vista: qualità dei film, scelte istituzionali, organizzazione.
Dal punto di vista della qualità dei film il bilancio è largamente positivo. Ci sono piaciute, e molto, le scelte compiute da Müller in campo artistico.
Sulle scelte politiche e commerciali (in termini di visibilità, attenzione al pubblico, scelta dei componenti delle giurie, e – non da ultimo – film premiati) molte sono state le polemiche: qui il bilancio è meno roseo.
Il terzo punto di vista riguarda l’organizzazione (scelta degli spazi, prezzi, concomitanza di eventi, gestione delle sale e del pubblico). Sotto quest’ultima prospettiva, il festival è stato insoddisfacente.
Una rassegna di qualità.
Ricorderemo la settima edizione del festival di Roma come quella in cui il concorso è diventato finalmente un concorso di primo piano. Sino al 2011 gli autori erano semi-sconosciuti, i film mediamente sotto la sufficienza: invece, la selezione ufficiale del 2012 è paragonabile a un’edizione del festival di Berlino. Persino a un’edizione di Venezia, che fosse priva di quei due-tre registi di calibro che sempre sono presenti, in concorso, sul lido (insieme però a non poche pellicole scarse). La scelta, esplicita, di Roma 2012, è stata di orientarsi prevalentemente su autori giovani e opere seconde o terze di registi emergenti di riconosciuto talento. Una scelta che ci piace, così come ci piace l’intenzione di presentare tutte anteprime internazionali, affinché il festival passi, da vetrina per prodotti già in circolo, a trampolino di lancio per opere di qualità artistica. L’auspicio è che, a partire da questa edizione, autori e case di produzione guardino a Roma come a un festival in cui l'essere selezionati sia segno di prestigio.
Valérie Donzelli e Alexey Fedorchenko: due nomi di punta del cinema europeo del momento, già passati negli ultimi due anni per Cannes e Venezia, ciascuno con un film per cui si è gridato al capolavoro (rispettivamente "
La guerra è dichiarata" e “
Silent souls”). A Roma 2012 hanno presentato “
Main dans la main”, commedia raffinata di altissimo spessore (su cui si rimanda alla
recensione), e “Spose celestiali dei Mari di pianura”. Quest’ultima è una pellicola di raro valore: dedicata a un’etnia che ha mantenuto tradizioni pre-cristiane (i Mari), e che sopravvive in Russia in una regione situata negli Urali, il film è notevole anche per la struttura, ripartita in oltre venti frammenti che costituiscono un insieme omogeneo, in forma di realismo magico (ispirato alle tradizioni di quel popolo), su femminilità e sessualità, con un occhio al Decameron di Boccaccio e uno a quello di Pasolini. Un film di fruizione difficile, ma di pregio altissimo.
Accanto a questi due talenti, tre autori con una brillante carriera alle spalle, nessuno dei quali ha deluso: Johnnie To, Jacques Doillon e Miike Takeshi.
Johnnie To continua imperterrito un cinema d’azione poliziesca geometrico e impietosamente asciutto. Il suo “Drug war” si segnala non solo per essere il primo film che parla di traffico di droga nella Cina contemporanea, ma anche per un’interessante commistione fra i codici del genere e uno spirito di denuncia che a tratti fa pensare a “
Gomorra”. E si chiude con un’esecuzione capitale: una scena forse eticamente discutibile (è a favore o contro la pena di morte?), ma assolutamente memorabile.
Jacques Doillon è un epigono della Nouvelle Vague, amatissimo in Francia anche se pressoché sconosciuto in Italia. Anche lui, con “Un enfant de toi”, resta fedelissimo al suo stile: fatto di dialoghi, recitazione
en plein air e capacità di restituire la vita colta in presa diretta. Il vino buono migliora con l’età.
Il regista di culto
Miike Takashi prosegue il suo percorso estremo, che attende ancora il riconoscimento che gli spetta per capacità di innovazione linguistica. “
Lessons of the evil” è un altissimo risultato e si colloca dalle parti di “
Audition” alle vette del suo cinema. Ed è colmo di sequenze irresistibili girate divinamente.
“The motel life”, opera prima dei fratelli Polsky e vincitore del premio del pubblico, è un film indipendente, in stile Sundance, che si regge su una strepitosa interpretazione di Stephen Dorff, su un immaginifico ricorso a intermezzi animati, e su un finale meraviglioso per intensità che non contraddice il minimalismo carveriano della pellicola. Il film è stato premiato anche per la sceneggiatura, tratta da un apprezzato romanzo di Willy Vlautin.
“A glimpse inside the mind of Charles Swan III”, opera seconda di Roman Coppola, figlio di Francis e fratello di Sofia, è molto piaciuto. Sembra la versione divertente, e francamente più riuscita, di “
Somewhere” di Sofia Coppola (che pure vinse un Leone d’oro nel 2010). Roman Coppola parla di un adolescente fuori tempo massimo, che l’abbondanza in cui è cresciuto non soddisfa più, e che una delusione d'amore spinge a un riscatto e a una vita più autentica. Coppola ha uno stile vicino a Wes Anderson, con cui ha collaborato in passato, e a tratti ricorda anche il primo Allen. Cast importante (tra gli altri, spicca il solito Bill Murray), tempi comici perfetti, ritmo e invenzioni visive. Evidentemente autobiografico e irresistibilmente autoironico, l’
alter ego del regista è il protagonista Charlie Sheen (non per caso, anche lui figlio d'arte).
Altro film di figli d’arte è “Ixjana” dei fratelli Skolimowski, forse non riuscito ma intrigante: un’ambiziosa attualizzazione del mito di Faust, con espliciti rimandi a Bulgakov, in uno stile che risente persino troppo della lezione di David Lynch.
Fin qui i film che abbiamo potuto vedere. Si è parlato un gran bene, in termini artistici, anche di “Mai morire”, opera seconda del messicano Enrique Rivero. Notevole la presenza in concorso di un costoso
kolossal storico cinese, “1942” di Feng Xiaogang, che annovera nel cast Adrien Brody e Tim Robbins. “Eterno ritorno” è un esercizio di stile – alla maniera di Raymond Queneau – di Kira Muratova, regista ucraina davvero poco nota, ma molto stimata dai pochi che hanno il privilegio di conoscerla.
“Marfa girl” di Larry Clark, premiato con il Marc’Aurelio d’oro, pare porsi in linea di assoluta coerenza con i suoi precedenti e controversi “
Kids” e “
Ken park”. Persino nel conferirgli il premio, la giuria ha voluto precisare la linearità della sua poetica, che a chi ha visto il film è parsa ostinazione o limitatezza di sguardo. Larry Clark è logorroico: ha più di qualche sassolino nella scarpa da togliersi contro Hollywood (a suon di “fuck”) e una singolare teoria sul futuro ormai esclusivamente web del cinema sulla quale siamo oltremodo scettici. Sembra piuttosto un paravento per un settantenne pieno di sé, che sinora non aveva mai avuto riconoscimenti importanti.
Abbiamo lasciato per ultimi gli italiani in concorso. “
Alì ha gli occhi azzurri” (primo lungometraggio di Claudio Giovannesi), ispirato a Pasolini e ambientato sul litorale romano, è piaciuto molto, e ha vinto ben due premi importanti: il Premio speciale della giuria e il Premio "migliore opera prima o seconda". Se ne dice un gran bene. E’ nelle sale.
Pappi Corsicato, con “Il volto di un’altra”, ennesima commedia surreale nel suo stile scombiccherato, parla stavolta di chirurgia plastica: ha riscosso pareri tiepidi, tutt’al più benevoli.
Ben altro scalpore ha suscitato l’autocompiaciuto Paolo Franchi, ennesima incarnazione della stirpe antonioniana del cinema italiano. L’autore, dopo il promettente esordio de “
La spettatrice”, aveva deluso critica e pubblico con “
Nessuna qualità agli eroi”, passato cinque anni fa in concorso al festival di Venezia. Ora torna, irredento, con un film - "E la chiamano estate" - apparso estremo nel linguaggio, nell'altezzosa osticità e nella deliberata provocatorietà di immagini e temi. Un film che, a quanto risulta, persegue sia l’intento di "trasgredire e scandalizzare" (?), sia quello di inimicarsi orgogliosamente pubblico e critica: contraddittorio? Ha vinto il Premio per la miglior regia e quello per la miglior interpretazione femminile (Isabella Ferrari). E ha scatenato un putiferio (roba da "vergogna!" urlati in mezzo ai fischi, durante la premiazione). La giuria (presieduta da Jeff Nichols, forse troppo giovane per essere autorevolmente indipendente) è stata influenzata dalla committenza (la direzione artistica)? E’ legittimo ipotizzarlo. Senz’altro, le arzigogolate motivazioni con cui i due premi sono stati assegnati sanno di giustificazione.
Excutatio non petita, accusatio manifesta.
Le scelte delle giurie sono spesso dettate da pressioni esterne: è una piaga che affligge i concorsi di ogni ordine e grado. Per Roma 2012, se non altro, gli evidenti motivi "istituzionali" dei due riconoscimenti più importanti sono stati esplicitamente rivendicati dai rispettivi autori: "Marfa girl" è anti-hollywoodiano e indipendente al 100% (sarà diffuso solo online); "E la chiamano estate" è un film prodotto "senza la televisione".
Miopia organizzativa e mancato riguardo per il pubblico.
Fuori concorso, o nelle sezioni parallele (CineMAXXI; Prospettive Italia; Alice nella città) è passato, rispetto agli anni scorsi, un numero minore di film di rilievo, e un numero davvero esiguo di film di appetibilità popolare. Poche le star all’Auditorium (tranne Sylvester Stallone protagonista del buon
action “Bullet to the head”, di Walter Hill); a parte
Placido praticamente nessun regista di richiamo per le masse.
E’ una scelta sbagliata: può andar bene in concorso, ma fuori concorso un festival che si rispetti deve avere qualche film di richiamo. E non deve limitarsi per orgoglio a film rigorosamente in anteprima. Soprattutto se si svolge in una metropoli, una capitale del cinema, con disponibilità di spazi adeguati come Roma.
Troppa austerità ha penalizzato l’immagine di un festival che veniva apprezzato, dai romani, in particolare per l’ampia proposta di incontri con autori ed attori, quest’anno drasticamente ridotta.
Incomprensibile tra l'altro la scelta del film di apertura, caduta su un'opera pure di dubbia caratura artistica: “
Aspettando il mare”, di un regista ignoto ai più e totalmente privo dell’
appeal che un film d’apertura dovrebbe possedere (vedi
recensione).
Tra i film potenzialmente interessanti delle sezioni secondarie abbiamo visto il bell’esordio di Francesco Amato con “Cosimo e Nicole”, che ha vinto la sezione Prospettive Italia, e “Il regno delle Carte”, trasposizione di un’opera teatrale di Tagore, del videoartista indiano Q. Occorre denunciare i preconcetti per cui film che parlano un linguaggio originale e innovativo, come il film indiano, debbano essere in qualche modo ghettizzati entro i limiti di una rassegna che furbescamente allude, nel nome, al cinema d'arte del XXI secolo (la sezione CineMAXXI è frutto di collaborazione fra Cinema per Roma e il MAXXI, museo romano delle "arti del XXI secolo"), e tenuti lontano dai riflettori proprio in una rassegna così attenta alla qualità artistica. I preconcetti purtroppo condizionano la percezione di ciò che è all’avanguardia, limitano la libertà di linguaggio, e orientano le “tendenze” in modo da renderne ardua la spontaneità.
Da CineMAXXI meritano una menzione anche opere sperimentali di metalinguaggio, firmate da autori come Mike Figgis (“Suspension of disbelief”) e Paul Verhoeven (“Steekspel”).
Segnaliamo la presenza (sempre in CinemaXXI...) del grande Peter Greenaway con il suo ultimo lavoro (“Goltzius and the pelican company”), dell’ultracentenario De Oliveira, presente con due corti in opere collettive (“Centro Historico” e “Mundo invisivel”, entrambe interessanti), e dell’affermata Marjane Satrapi con la divertente commedia nera “
La bande de Jotas”.
A riguardo, va denunciata la scelta, delirante – miope anche dal punto di vista commerciale – di confinare in sale assolutamente secondarie le pellicole di Greenaway e della Satrapi (entrambe di grande richiamo, per i cinefili, che sono molti più di quanti si creda): con il risultato di creare scomodissimi “tutto esaurito” e grande scontento da parte degli accreditati, rimasti esclusi dalle proiezioni perché i biglietti erano stati venduti venendo vergognosamente meno al rispetto della garanzia – assicurata su programmi e regolamenti – di un numero di posti riservati agli accreditati in tutte le proiezioni.
E, ciò, mentre pellicole evidentemente “raccomandate” andavano disertate in sale grandi come la Sinopoli (è il caso di “Photo”, pur non disprezzabile, di un esordiente portoghese)!
Incondivisibile la scelta, dettata da presumibili ragioni di bilancio, di escludere dagli spazi dedicati al festival la sala più nobile e grande dell’Auditorium, la Santa Cecilia.
Scandalosa la scelta di alzare i prezzi delle proiezioni serali a 25 e 30 euro, laddove sino allo scorso anno le proiezioni più care erano quelle della Santa Cecilia, i cui 23 euro sembravano già una cifra improponibile.
In conclusione, mentre andiamo fieri della qualità artistica del concorso, come si accennava in apertura dal punto di vista dell’attenzione al pubblico e delle scelte organizzative, il festival di Roma del 2012 merita invece una sonora bocciatura.