Tutti i post per la categoria: Cinema registi
Pubblicato il 04/10/2012 08:40:21 da
amterme63
Cinema ostico quello del regista finlandese
Aki Kaurismaki: statico, minimalista, anticonvenzionale, non concede niente all'azione e allo spettacolo. Eppure i suoi film sono fra i più rilevanti e profondi fra quelli usciti negli ultimi anni. E' un cinema quindi da guardare non solo con gli occhi, ma soprattutto con la sensibilità e la riflessione.
Prerequisito per avvicinarsi all'arte di Aki Kaurismaki è di avere letto almeno un romanzo di Dostojevskij, avere visto
L'argent di
Bresson e conoscere il cinema di
Jean-Luc Godard. Sì, perché per capire bene l'opera di Kaurismaki è meglio arrivarci già "preparati". In questa maniera non si rimane sorpresi nel vedere storie ambientate per lo più in bassifondi, fra i reietti della società, con i personaggi spesso vittime degli impietosi meccanismi di una società estranea e ostile. Come in Dostojevskij, Kaurismaki sta dalla parte del più debole, della persona brutta e insignificante, di chi vive ai margini. Nei suoi film i protagonisti sono per lo più spazzini o macellai, ex minatori o saldatori, commesse di supermercati od operaie in fabbriche di fiammiferi. Tutti con la loro dignitosa rassegnazione ad essere sfruttati, usati e gettati via quando non servono più. La sopravvivenza è qualcosa di molto duro e tra l'altro pure se si è capitani d'industria non si ha la vita facile (
"Amleto si mette in affari").
Insomma, secondo Aki Kaurismaki è il mondo in cui viviamo (all'apparenza bello, sfavillante, godereccio) che letteralmente ci imprigiona, ci rinchiude, ci impoverisce, ci toglie la dignità di essere umani. Kaurismaki non fa altro che continuare lungo la strada aperta da quel film difficile e controverso che è "
L'argent" di Bresson. E' come se l'esistenza nel mondo postmoderno venisse concepita come completamente svuotata di qualsiasi senso e valore. E' facile vedere nei film di Kaurismaki personaggi che siedono silenziosi e abulici in locali rumorosissimi, davanti a innumerevoli bottiglie di birra vuote e portaceneri stracolmi. Non si parla perché non c'è niente di cui parlare, non si comunica perché non c'è niente da comunicare, semplicemente perché non c'è niente nella vita che valga la pena vivere. Si è così ridotti a macchine e burattini che non si è nemmeno più capaci di conoscere se stessi, né di sapere esprimere ciò che si prova. L'amaro destino dei personaggi del mondo messo in scena da Kaurismaki è quello di vivere soli, impietosamente sfruttati e severamente puniti al minimo sgarro. Non ci sono vie d'uscita, se non sognando improbabili fughe.
La vita ordinaria filtrata da modi di rappresentazione "intellettuali" ed anticonvenzionali è la novità introdotta nel cinema dalla
Nouvelle Vague. Kaurismaki segue questa strada stilistica imbastendo storie senza progressione narrativa, fatti di quadri statici apparentemente senza nesso fra di loro. Come nei film di Godard lo scopo non è narrare ma rappresentare. Si ha a che fare con film a tesi e quindi ciò che preme è trasmettere il concetto, più che giocare con l'emotività dello spettatore. Si rinuncia quindi spesso al gioco della suspense e al fascino estetico dell'immagine "bella". I suoi film sono ambientati quasi tutti in luoghi anonimi, spesso squallidi e degradati. I colori sono smorti, freddi.
Ma c'è qualcosa che differenzia Kaurismaki dall'ultimo Bresson. I suoi personaggi sono nonostante tutto vivi, in qualche maniera cercano disperatamente di comunicare, di legare fra di loro, di reagire. Insomma si è destinati a perdere o a soccombere ma almeno lo si fa combattendo. Nei suoi film si parla pochissimo, gli attori recitano centellinando i movimenti e le espressioni, eppure mai silenzio è stato più lancinante di un acutissimo grido di dolore. Ogni scena trasuda profondo dolore, immane disagio, per essendo silenziosa e statica. Tutto questo grazie all'arte di attori di grande valore come Matti Pellonpaa e Kati Outinen. Dove non possono le parole, comunque può la musica. In tanti film lo stato d'animo dei personaggi è rivelato da una canzone che viene trasmessa dalla radio o da un juke box, oppure suonata da qualche improbabile cantante o complessino
neo-folk.
Tutto questo è contenuto nei primi film di Aki Kaurismaki, quelli più duri, quelli più cupi, forse quelli più belli, come
"Ombre nel paradiso",
"Ariel" e
"La fiammiferaia". Poi è come se il regista finlandese avesse preso gusto nel proprio mestiere e alla fine sia approdato a una specie di riconciliazione con la vita. I primi segni si notano nel film
"Leningrad cowboys go America", in cui vengono usate le figure estetiche che fino ad allora servivano a ritrarre il vuoto di vivere (staticità, anticonvenzionalità, abulia, sfortuna, ecc.) per farne oggetto di riciclo ludico (cedendo così alle convenzioni artistiche postmoderne). Non a caso è il film più commerciale e disimpegnato di Kaurismaki. La vera svolta etica avviene però con
"Ho affittato un killer, in cui per la prima volta si dà valore alla vita in sé come esperienza positiva, da vivere comunque, in qualsiasi maniera ci si trovi ad affrontarla. I film seguenti riproporranno spesso il lieto fine, o comunque una speranza più concreta e netta. In ogni caso Kaurismaki non cerca mai di venire a patti con l'odiato sistema, anzi la sua critica contro la burocrazia e ogni genere di
establishment si fa sempre più netto e puntuto di film in film. I personaggi però possono pensare di (sperare di) trovare un ambiente solidale pur nella miseria più nera (
"L'uomo senza passato" - di nuovo un film alla Dostojevskij) e forse anche un aiuto insperato, una persona disposta a rinunciare a se stesso per gli altri.
Senza rinnegare completamente i presupposti pessimisti del suo mondo, Kaurismaki ha fatto rientrare dalla finestra concetti di natura quasi religiosa come speranza, aiuto reciproco, solidarietà, nuova norma per un nuovo vivere (
"Miracolo a Le Havre"). In pratica il percorso inverso rispetto a Bresson, che partito da presupposti di fede è pervenuto alla fine ad un radicale e profondo nichilismo. Kaurismaki invece dalla rappresentazione dell'esistenza più nera e disperante è arrivato a intravedere come una luce in fondo al tunnel.
Forse perché anche lui ha capito che dal letame possono nascere fiori?
Pubblicato il 01/10/2012 08:35:57 da
Silly"I bambini percepiscono i problemi, pertanto non è giusto nasconderli. Ma ai piccoli di cinque anni non si può non mostrare la speranza."
Un alone di mistero aleggia sul prossimo lavoro del regista Hayao Miyazaki. Le ultime informazioni che ci giungono dai corridoi del web ci dicono sia alle prese con un biopic sul progettista dell'aereo Zero (utilizzato dal Giappone nella seconda guerra mondiale) Jiro Horikoshi. Non essendo trapelato altro, ci dobbiamo accontentare di questa affermazione dell'autore: "Non sarà un film che il pubblico può guardare in relax, ma sarà un'opera in qualche modo realistica" .
Attendiamo pazientemente la sua ultima fatica. Personalmente ne ho un estremo bisogno. Per chi non conoscesse questo straordinario regista e si ritrovasse a parlarne con me in salotto, tra un muffin, caffè ristretti e qualche sigaretta, probabilmente andrebbe a casa felice. Perché Miyazaki è il Dio dell'animazione giapponese. No, fermi. E' il Dio dell'animazione, punto. Ed è in grado di regalare la vera felicità, quella che ti permette di non pensare alle brutture insignificanti della microscopica esistenza, ma ti accompagna per mano in mondi e realtà incredibili, potenzialmente più veri e plausibili del talvolta mediocre reale. Il primo lungometraggio del Maestro che vidi fu
La città incantata, ed incantata rimasi. Di lui, delle sue opere, non potei più fare a meno. E succede a tutti, anche a coloro che solitamente osservano i film d'animazione con sospetto, ritenendoli robetta per mocciosi o per nerd sfigati.
Ora, non mi metterò certamente a raccontare tutti i suoi film, se solo mi inoltrassi in questo probabilmente non ne verrei più fuori. Quello che mi preme maggiormente, è che venga finalmente accolto come un arricchimento culturale e umano il Miyazaki pensiero. Per chi ancora credesse che si sta parlando di un tizio che fa i cartoni animati, sappiate che stiamo parlando di un uomo laureatosi negli anni '60 in scienze politiche ed economia. Che nel 1985 mette definitivamente in piedi, insieme al socio Isao Takahata, il leggendario Studio Ghibli, permettendo a tutto il mondo di godere delle sue opere, avvalendosi di preziosi collaboratori, lasciando spazio a giovani leve. E' uno che nei titoli di coda inserisce il gatto degli studios e le donne delle pulizie. Parlo di un signore che recentemente protesta contro il nucleare, marciando in grembiule insieme a due amici e un border collie in assoluto silenzio. Vi sembra che stia parlando di uno che coglioneggia? Bene, finalmente ci siamo intesi.
La filosofia di pensiero miyazakiana prende forma comunicativa attraverso l'animazione, viene rivolta al mondo dell'infanzia, un mondo sensibile che apprende inconsapevolmente, ma che ha bisogno dell'adulto per rielaborare, per comprendere completamente ciò in cui viene magicamente introdotto. Credo fermamente che le opere di Miyazaki dovrebbero essere mostrate ai bambini già dalla seconda infanzia, sia a casa che nelle scuole, condividendole con genitori ed educatori. Spesso noi adulti ci dimentichiamo di quanta importanza abbia la condivisione, soprattutto in un mondo come il nostro attuale, dove l'intercultura è ormai un valore aggiunto. Ed è proprio il
valore la parola chiave. Non al plurale, che quando sento parlare di valori mi viene un senso di nausea come quando vedo gli occhialetti in 3D. Si inciampa in stucchevoli banalità, ci si abbandona ineluttabilmente ai soliti
bla bla bla, riempiendo di luoghi comuni le orecchie stanche di passivi interlocutori. No, io parlo del Valore, quello universale che si dà alla vita, al rispetto di essa in tutti i suoi aspetti. Dopodiché ognuno può fare liberamente le sue personali riflessioni al riguardo. Basterebbe sorteggiare a caso tra le opere del regista e ne avremmo esempi lampanti. I mondi fantastici in cui ci catapulta sono esperienze magiche, trasudano di verità e di epico coraggio, quello che serve un po' a noi tutti per crescere i nostri bambini in questo caotico presente, proiettandoli in un futuro possibilmente meno incerto. Ricordate quella canzone del nostro compianto Giorgio Gaber che ci illuminava sul non insegnare ai bambini?
"Non esaltate il talento
che è sempre più spento
non li avviate al bel canto, al teatro
alla danza
ma se proprio volete
raccontategli il sogno
di un'antica speranza.
Non insegnate ai bambini
ma coltivate voi stessi il cuore e la mente
stategli sempre vicini
date fiducia all'amore il resto è niente."
Niente di più difficile. Ma sarebbe ora di incominciare.
Pubblicato il 25/09/2012 08:53:36 da
cash
Questione di percorsi, gente che trovi, gente che lasci. Prendete
Sorrentino; partito bene, proseguito meglio. Poi ha trasceso, destinazione non pervenuta. Difficile portare gli spettatori con te quando vai troppo in alto. Manca ossigeno, gira la testa. E allora tanto vale girarla qui a terra e guardare altro. Ma, volendo, uno può ostinarsi e perdere due ore della propria vita, cercando di comprendere non tanto il senso di ciò che ha visto, ma perché abbia sprecato due ore.
Perché bisogna rifletterci su, uno mica può dire subito che Sorrentino ha fatto un film di merda. Quindi ti senti in colpa due volte; non solo hai perso tempo, ma stai gettando discredito su un intoccabile che ci fa fare bella figura all'estero. E allora parte il listone riparatore, ovvero i motivi per cui il film non ti è piaciuto, ma non era sbagliato lui; sei sbagliato tu. Le autoanalisi circostanziate sono impietose, magari emergono dettagli finora sepolti che qualche smorfia di Sean Penn ha rievocato, e ti senti inadeguato e sterile, assolutamente immaturo per comprendere ciò che hai visto. E quasi ritelefoni al tuo primo amore, per ripartire da dove tutto è andato storto, da quando avevi ancora lo zaino dell'
Invicta con le toppe.
Poi, per fortuna, vai a dormire.
La ricompensa del cervello che stacca è impagabile.
Pubblicato il 21/09/2012 08:36:14 da
cashIeri, per caso, ma per puro caso, ho ri-visto "
Professione Reporter". Attentissimo a ogni particolare, occhi puntati sullo schermo come un fuciliere scelto la sua preda (quanto precede è un anacoluto). Ho dato fondo a tutta la mia tantrica calma, trattenendo la pipì per non andare in bagno. No, niente pausa; non si interrompe un'emozione, mi hanno insegnato. Il film è finito. Ho spento, con calma, e sono finalmente andato a rilasciare tutta la mia urina. Ho fatto anche una puzza nel mentre, e so, dopo aver visto "
Shameless", che è normale e mentre si piscia lo fanno tutti (i maschi - forse le donne vomitano il cibo e restano taglia 24). Ho bevuto un bicchiere d'acqua, controllato le mail, Facebook e robe simili. Spento il computer, luci, sotto il letto, buio, occhi chiusi. Senza sapere cos'avevo fatto nelle due ore precedenti, ignaro, inconsapevole.
Black out, buco nero.
E' la magia del cinema di
Antonioni, quel cinema che non c'è.
Lo ringrazio per non avermi fatto perdere tempo.
Ma non so perché.