Un angelo in crisi esistenziale da senso di colpa e i leggendari Leviatani in giro per gli Stati Uniti con lo scopo di trasformare gli statunitensi in cibi succulenti, perché, cito testualmente, “
they're fat”. Uno si potrebbe chiedere, tra le altre cose, da dove siano usciti; ma dal Purgatorio, è chiaro. Il Purgatorio, infatti, non solo esiste, ma in determinate circostanze puoi pure entrarci e visitarlo, anche se per farlo devi saper staccare teste e sbudellare gente con coltellacci mica da ridere. Del resto, se nelle precedenti stagioni si era fatta una capatina all'Inferno, e pure una passeggiata in Paradiso, Il Purgatorio non poteva essere
off-limits. E infatti non lo è. E' grigio, nel caso ve lo steste chiedendo, tutto grigio. E al suo interno si fa solo a botte.
E quando si combatte, nella vita, non è come nel bagno turco de “
La promessa dell'assassino” di
Cronenberg, no. Al contrario, è tutto molto più figo. Hai una colonna sonora che ti parte in automatico quando stai per andare a spaccare il culo al cattivo di turno. E non una qualsiasi, una di tutto rispetto. Se per esempio stai per buttarti con una certa cazzutaggine nella fossa dei leoni, “
Born to be Wild” degli Steppenwolf viene sparata a tutto volume da casse invisibili ma potentissime piazzate qua e là vicino al luogo dello scontro, e tu ti gasi tantissimo. E vinci. E non è vero che immortale significa che qualcuno o qualcosa non può morire, ma solo che devi ancora scoprire come si fa, magari semplicemente perché non ti è ancora capitato tra le mani Il Verbo di Dio che ti spiega come fare. Perché esiste pure quello, insieme ad una marea di altre cose.
Quella che ti propinano in TV, come quella che vivi tutti i giorni, non è la vita reale; quando muori, esempio come un altro, non è vero che muori, finisci davvero in Paradiso (o altrove a seconda della tua condotta in vita). Non è un'invenzione religiosa; tutti quei sermoni ascoltati in chiesa non sono falsi. O perlomeno non totalmente. Si, perché “Supernatural” ci insegna che anche il Paradiso esiste ma che al suo interno non è poi tutto rosa e fiori, ci sono fazioni di angeli che se le menano di santa ragione. E però è emozionante, no? Se raccontassero tutta la verità io in chiesa infatti ci andrei volentieri. Comunque, dicevo, non muori veramente. Non solo nel senso che vai da qualche altra parte, ma proprio nel senso che se sei abbastanza in gamba dal Paradiso (o Inferno o Purgatorio) puoi uscire e tornare alla tua vita di tutti i giorni, beffando la Morte. Bisogna del resto considerare che la Morte, ci insegna sempre "Supernatural", non è solo un dato di fatto, la Morte è un essere pensante, e come tutti gli esseri pensanti può sbagliare. Se vi interessa, c'ha una Cadillac bianca la Morte, se ne va in giro con quella. Quindi se la vedete sappiate che potreste schiattare da un momento all'altro (vabbè che poi potete tornare...). Ah, altro indizio, quando cammina la Morte va a ralenti, e non perché la rende figa sullo schermo, è proprio perché va a ralenti. Altro mito da sfatare, quest'ultimo: quella del ralenti non è una tecnica da post-produzione, è una capacità che puoi usare quando diventi abbastanza figo, per l'appunto. E immagina che spettacolo se nel mentre ti capita tra le mani il martello di Thor, com'è successo a Sam. Eh, perché esistono anche tutti gli altri dei, ovviamente. Non è che essendoci i principali elementi cristiani allora esiste solo Dio. Nella prossima stagione uno tra Sam e Dean potrebbe finire nel Valhalla, e lì sì che di canzoni rockettare ne partirebbero in quantità industriali. Tipo “Locomotive Breath”, che accompagna il riepilogo ad inizio ottava stagione. Già, ben otto stagioni. E potrebbero essercene altre otto, non preoccupandosi “Supernatural” di qualsivoglia credibilità. L'importante è che si vada avanti tra esagerazioni sempre maggiori, coscienza della propria appartenenza all'intrattenimento più privo di impegno di sempre e fantastiche ambientazioni canadesi. Guardatela, vi aprirà gli occhi su come funziona il mondo, non sarà un libro di fisica a farlo.
Approfittando delle provocazioni già seminate su questo blog in merito ai cinepanettoni/specchio riflesso della società, la sottoscritta rilancia proponendo una riflessione sullo stato di salute della fiction nostrana. Ovviamente, inutile dirlo, si tratta di uno stato terminale da encefalogramma piatto. E’ anche vero però, che il disprezzo per i prodotti televisivi italiani (impennatosi dopo il successo di Boris) impedisce talvolta alla critica di scorgere distintamente all’interno del quadro clinico, di pari passo con un atteggiamento ghettizzatorio e radical chic che stacca la spina anche ai rari impulsi elettrici lampeggianti.
Ricordiamo, la controtendenza è figlia legittima degli spiriti curiosi e polemici, e ciò può bastare a raddrizzare i numerosi nasi che si storceranno e ad assolvermi presso la pubblica piazza da quanto sto per affermare, ovvero che L'onore e il rispetto è in assoluto la migliore serie del millennio. Perché volutamente estasi del kitch, melodrammone debitore dei fotoromanzi, citazionismo barocco, spettacolare, come l’avrebbe concepito Tarantino se avesse voluto omaggiare Il Padrino (qui ripreso fin dalle musiche e dalla scansione delle stagioni in parte seconda e terza). Un trash onesto e scanzonato, che non si nasconde dietro il velo appannato della fotografia smarmellata e del finto buonismo dell’analisi sociale, in devozione alle strizzatine d’occhio ecclesiastiche e ai crocifissi appesi, ma si pone per ciò che è, puro intrattenimento pecoreccio. Sesso e violenza sono gli insoliti protagonisti di una sceneggiatura che, a differenza delle tante geograficamente collocate da Napoli in giù (ma scritte, è bene sottolinearlo, da Roma in su), non ha la pretesa di farsi portavoce di alcun diritto, di fornire spiegazioni incomprensibili agli stessi che il territorio lo abitano, raccontando sconfitte che non esistono, secondo la contrapposizione schematica buoni Vs cattivi (anche perché, di Montalbano ce n’è uno solo). La vendetta logora tutti a Sirenuse, nessun escluso, mostrando paradossalmente a suon di stupri, sparatorie e carneficine surreali l’intricata collusione locale con più credibilità dei contesti “normali” precorsi dalla soap Agrodolce, dove sfuggire allo stereotipo della peggiore specie, al macchiettismo più fastidioso e insopportabile (quello calato nella quotidianità) è un’impresa impossibile.
Ne L’onore e il rispetto invece, il velo nero, la lupara, un “minghia” o un “bottana” diventano simboli spirituali e canti liberatori di una concezione teatrale della tematica trattata, che grazie ai toni estremi ed effettistici finisce per essere esorcizzata. E poi, chiuso il dibattito (all’epoca sacrosanto) su Il corpo delle donne nella tv berlusconiana, finalmente anche le casalinghe/i in calore possono sostituirsi a Lino Banfi dinnanzi al buco della serratura, e spiare l’involucro oggetto Dario Oliviero in arte Gabriel Garko. Ai suoi addominali scolpiti e ai glutei marmorei il merito (oltre che estetico) di avere lanciato un genere inedito: la tragicommedia erotica femminista. Ma se per la rivalutazione della doccia della Fenech abbiamo dovuto attendere trent’anni, possiamo stare certi che per la vasca di Tonio Fortebracci non andrà diversamente.
Pubblicato il 22/10/2012 08:38:28 da
maremareIl buon
Bernardo sembra avere trovato nuovo smalto in vecchiaia, complice una sedia a rotelle.
Guardando il mondo dal pavimento, l'impotenza fisica seda l'irruenza pulsionale, pone limiti, cerca strade alternative, trova nuove canalizzazioni creative.
"Ho appena finito di girare il film e ne vorrei subito girare un altro" - dichiara il regista.
La nuova limitata prospettiva spossa meno e sembra alimentare un sentimento nuovo.
Jacopo Antinori e Tea Falco in una scena di "Io e te", in uscita nelle sale il 25 ottobre
In "
Io e te" le tematiche tipiche del cinema di Bertolucci vengono trattate in maniera inusuale. La leggerezza spodesta la morbosità, l'incesto viene solo sfiorato, l'affetto prende il posto del 'muro' pulsionale. Strepitosi i due giovani attori, rappresentanti due solitudini speculari. Il blocco soggettivo, interpretato nelle opposte reazioni attrattive, genera quella 'pietas' che illumina di colori lo scantinato buio. La regressiva e distruttiva 'trappola per topi' non funziona più.
La gabbia é aperta, la belva non più feroce.
Pubblicato il 19/10/2012 08:34:57 da
kowalsky
Una scena dal film "Riff Raff" di Ken Loach
Qualche volta la facevano franca, i detentori di etichette, inserendo tra i generi di film denominazioni che oggi non hanno più alcun credito, come "film sociale". Esiste o no il cinema "sociale"? Un'incrocio tra
L'emploi du temps di Laurent Cantet e
Riff Raff di Ken Loach? Prendiamo il cinema inglese, se pensiamo all'Inghilterra i due nomi più comparabili sembrano essere - e sono - proprio
Ken Loach e
Mike Leigh. Se si passa alla letteratura, il primo nome credibile è quello di
Jonathan Coe, mentre per i musicisti dovremmo scomodare gli anni '80 di
Billy Bragg (un Dylan britannico con tonnellate di socialismo alle spalle), con il Red Wedge fondato in anni di barricate e crisi economica, di
Paul Weller e degli
Style Council, dei falsi minatori contaminati di soul tipo
Dexy's Midnight Runners, o degli oltranzisti pub-hooligans sfamati di nichilismo punk come i
Redskins, o altri barricadieri-meteora, gli
Easterhouse, e ovviamente i tardo-hippies vezzati in un'immaginaria factory
The Smiths.
Un po' poco sul fronte del cinema, molto di più sul piano squisitamente musicale. A cavallo tra gli anni '70 e '80, prima del Diluvio del Thatcherismo più oppressivo, c'erano le pub-band del periodo
Rockpile, a dimostrazione che l'Icona del luogo d'incontro è sempre stata la via più diffusa per le contaminazioni ed esperienze ideologico-sociali.
Il Cinema inglese, oltre a un periodo di piccoli fasti di genere come l'esperienza Hammer, e alla commedia di origine teatrale à la Noel Coward - che per i Moderni suppongo faccia l'effetto della riesumazione del cadavere di Nilla Pizzi per un'ennesimo tributo al teatro Ariston di Sanremo - oltre al noir classico impostato da
Carol Reed o alla spettacolarità multiforme e nondimeno letteraria di
David Lean, visse come qualcuno forse saprà la sua personalissima
Nouvelle Vague.
Oggi tutti sanno che esiste(va) un film seminale e innovativo come
I giovani arrabbiati (1959) ma nessuno sembra l'abbia visto. E' il primo manifesto importante di una corrente teatrale e letteraria che agiva sotto la dicitura di "Angry young men", per l'appunto. Tra i nomi più rappresentativi, John Debourne e Harold Pinter, futuro sceneggiatore di
Joseph Losey. Lo chiamavano
Free Cinema e molti pensano sia giusto che se ne parli, ma pochissimi sanno di cosa si parla. E onestamente c'è una discreta differenza tra il Free Cinema e la Nouvelle Vague, sia dal punto di vista stilistico che tecnico-visivo. Probabilmente il free cinema inglese è più uniforme rispetto all'appassionante maquillage del cinema francese, più vicino semmai a quella sorta di antologia da outsiders innescata da registi come
Marcel Carné ("
Peccatori in blue jeans", "
Gioventù nuda"),
Jean Delannoy, la falsa vena scanzonata di
Jacques Demy e l'America transfugata in Europa del primo
Jean-Pierre Melville.
Più che cercare la vanità dell'innovazione stilistica a tutti i costi, come ha fatto
Truffaut o ancor meglio
Godard, il Free Cinema lascia ai suoi personaggi la possibilità di interpretare con spontanea aderenza (mdp filtrata nello sguardo degli attori o delle attrici) ruolo e soggetto.
Il film più celebrato, per quanto misconosciuto, è ancora oggi
Sabato sera, domenica mattina (1960) di
Karel Reisz, interpretato da un Albert Finney giovane e splendidamente lontano dai clamori del glamour che rispecchia anche chi si avvale dell'espediente sociale per interiorizzarlo.
Ma prendete un film come
Sapore di miele (1961), opera atipica ambientata nella West End londinese o giù di lì. E' la storia di una giovanissima ragazza (Rita Tushingham) che viene messa incinta da un marinaio, e scopre l'amicizia (o meglio, il trait d'union tra due emarginati perenni) con un omosessuale di quartiere. L'ironia malsana che talvolta esprime la protagonista (cito la frase "I thought about you last night, and I felt out the bed twice") quasi stride con l'amarezza della vicenda e dell'ambiente che la circonda. Storie di classi operaie che (non) vanno in paradiso, di gioventù allo sbando ("
Gioventù, amore e rabbia" di Tony Richardson), di madri distratte o alcolizzate, di padri assenti, o magari anche di nobili in via di decadenza ("
Il servo" di Losey). L'Inghilterra che fa i conti in tasca al proprio delirio economico-culturale non è una novità (v. Charles Dickens) ma fa pensare. Sembra che esista un riflesso drammatico e più profondo tra le diverse classi sociali che in qualsiasi altro paese al mondo.
"L'ingiustizia è sempre perfetta. La gente perbene ha fame. Chi non vale è amato. E chi è buono muore", questa non è come potrebbe sembrare una serie di aforismi dell'ultimo letterato fuori tempo massimo, ma una serie di battute incrociate nel film £I giovani arrabbiati", manifesto del Free Cinema e di una nuova filosofia di pensiero che durerà - come vedremo - per i futuri decenni. Il Free Cinema che aveva alimentato cineasti come
John Schlesinger,
Jack Clayton,
Richard Lester o
Lindsay Anderson (il regista del durissimo "
Se...", 1969) ha avuto il merito di catturare il disagio sociale e di trasformarlo in un'invettiva universale benché legata monoliticamente alla ferita aperta della collettività inglese.
Se il primo Ken Loach collaborò al movimento, egli è stato in seguito il più deciso divulgatore di questa corrente. Il Free Cinema è stata in fondo la Rivoluzione più attraente e sconosciuta della storia, con i suoi successivi legami alla Swinging London ("
Ci divertiamo da matti", 1967, di Desmond Davis) e alla cultura beat (dal Lester dei film sui Beatles al Darling di Schlesinger).
Richard Burton (1925-1984)
Ma più di tutti resta impresso nella memoria dei pochi che lo conoscono le immagini in b/n con i volti di attori più (Laurence Harvey, Richard Burton, Julie Christie) o meno (Tom Courtenay, James Fox) conosciuti chiamati in causa come figure proletarie attraversate da un disagio privato che la gente comune, quella sfacciatamente eletta middle-of-the-road, capisce e più o meno consciamente vive tutti i giorni. C'è però una volontà di riscatto che va ben oltre lo stereotipo della quotidianità dell'operaio di fabbrica o dello studente di belle speranze senza un vero futuro, e in fondo è la stessa che accumuna un bellissimo romanzo di ALAN HOLLINGHURST e
La strada dei quartieri alti (1959), capolavoro cinematografico di Jack Clayton. Sono lacrime amare quelle versate dal protagonista, Laurence Harvey, che reclama una posizione sociale abbiente a scapito della felicità, e non è da meno l'amicizia di un ragazzo per un Dorian Gray viziato e vanitoso nel post-moderno "La Linea della Bellezza", in un'Inghilterra già infettata di Aids e meschini compromessi romantici.
Il dualismo del Free Cinema richiama alla memoria un'origine teatrale dove la diversità imposta come atto visivo (cfr. le celebri camicie a scacchi di Albert Finney o i modesti mocassini di un beatnik sedentario) sottolinea la deviante disperazione di una o più generazioni. Non tutti i GIOVANI ARRABBIATI di quel periodo diventarono dei divi, e infatti MIKE LEIGH non ci prova nemmeno a sollecitare questa celebrità. Chi si ricorda i nomi dei protagonisti di
Belle speranze, per esempio? O della favolosa interprete di
Ladybird Ladybird o magari della giovane sfortunata di
Family life, entrambi di KEN LOACH? Se esisteva un Inizio per il Free Cinema (intorno al 1955), non è così facile intravvederne l'epilogo. Ma anche noi, che questa rivoluzione sconosciuta l'abbiamo lasciata estinguere anche nel più lontano dei ricordi, ricorderemo per sempre il buffo volto di
Rita Tushingam mentre cerca di liberarsi da quel mondo, attraversando le piccole e anguste strade dei quartieri popolari londinesi, proprio come farebbero tutti i ragazzi di quartiere che cercano una risposta in qualche miraggio abbagliante, oltre le mura sociali delle nostre città
Pubblicato il 18/10/2012 08:39:36 da
peuceziaSembra che ultimamente il cinema italiano stia puntando molto sui ggiovani: scritto così perché, malgrado le film commission sparse per tutto il territorio nazionale, le pellicole uscite in queste prime settimane della nuova stagione cinematografica sono spesso ambientate a Roma.
Pensiamo a "
Il Rosso e il Blu".
È vero, è tratto da un romanzo quindi deve adeguarsi ed esserne fedele, però sarebbe stato carino un film sul mondo della scuola ambientato a Foggia, giusto per fare un nome di una località poco lanciata sul grande schermo.
Tornando alla riflessione iniziale: a settembre è uscito il film sulla scuola con
Scamarcio e la
Buy: sguardo ai ragazzi, alle loro paure, alla loro vita... poi esce "
Un giorno speciale"
e l'obiettivo si sposta su quelli che hanno terminato gli studi e sono in cerca, stanno imparando a vivere e a loro spese scoprono che il mestiere di vivere si trasforma in un male di vivere. E poi esce il nuovo film di Virzì, "
Tutti i santi giorni",
e l'attenzione si sposta sui precari intorno ai trent'anni, precari nel lavoro e nella vita, e il quadro si completa. Peccato che, come facevano gli scrittori nell'età vittoriana, il cinema si limita a mostrare, ma soluzioni nisba... del resto non le vuole dare nessuno queste soluzioni...