Pubblicato il 17/10/2012 08:39:25 da
The GauntLo so, è come sparare sulla Croce rossa, ma come diceva Corrado Guzzanti alias Rocco Smitherson (regista de paura) "sono sempre 50 punti". Ora in questa sede non è oggetto di riflessione quei mitici titoli che la distribuzione italiana appioppava come il celeberrimo "Non drammatizziamo è solo questione di corna" di Francois Truffaut, ma da profano della materia (la distribuzione cinematografica, appunto) innescare una serie di quesiti che si riprongono ciclicamente ad ogni stagione cinematografica che si possono riassumere in una semplice domanda: perché alcune pellicole non sono distribuite nelle sale cinematografiche?
Sarebbe facile prendere esempi come la produzione orientale che ha trovato e tuttora trova notevoli difficoltà distributive nel nostro paese. Basti pensare, rimanendo comunque nel campo delle ipotesi, all'ultimo vincitore del Leone d'oro all'ultima rassegna veneziana,
Pieta di Kim Ki-Duk. Parliamo di un regista più che affermato a livello mondiale. E se non avesse vinto il Leone? Oppure, peggio ancora, se fosse rimasto a bocca asciutta da ogni tipo di premio? Sarebbe stata così solerte la sua distribuzione subito dopo il festival? Mi limito a porre la domanda ben sapendo tuttavia che in questo caso particolare un distributore piccolo come la Good Films batta il ferro (sic!) finché è caldo.
Per rimanere su film recenti possiamo vedere i casi di
Killer Joe e
The Way Back. Registi pinco pallino alla loro opera d'esordio? Direi proprio di no. Qui parliamo di William Friedkin e Peter Weir che tutto possono essere, tranne due emeriti sconosciuti al grande pubblico. Eppure faticano a trovare spazio nella distribuzione italiana. Ora, da spettatore medio, quando vedo che due autori di questo calibro non riescono a trovare spazio adeguato nelle nostre sale cinematografiche mi viene facile da pensare che c'è qualcosa che non va.
Prendiamo Killer Joe. Eccellente riscontro di critica e pubblico al festival di Venezia (edizione 2011, precisiamo). Premi zero, ma ingenuamente una persona è portata a pensare che trattandosi di Friedkin, un piccolo spazio distributivo in tempi brevi si può trovare. Che tradotto in soldoni significa poche copie stampate per poche sale e per poco tempo, poi si vede. Il "poi si vede" invece si traduce quasi sempre nel "Hai visto mai che il vecchio passaparola può funzionare ancora?".
Uno spettatore medio spera ma nulla, silenzio per oltre un anno.
Di Killer Joe si sono perse le tracce, nemmeno il sottoscritto ci sperava più e invece.... miracolo! (dal Dizionario online Hoepli, Miracolo: fenomeno sensibile straordinario, che avviene al di fuori delle normali leggi della natura, attribuito all'intervento divino).
Killer Joe, novella Madonna di Lourdes, appare nel listino della Bolero film per l'11 ottobre per la gioia dei quattro gatti che riusciranno a vederlo.
Dopotutto Friedkin era già stato bastonato a dovere dalla nostra distribuzione molti anni indietro con "
Vivere e morire a Los Angeles", non un suo film qualsiasi. Infatti non solo uscì un anno dopo rispetto agli Stati Uniti, ma distribuito nel nostro paese nel mese di giugno. Ovvero come ti ammazzo un film già prima della sua uscita, visto che il giugno italiano non è proprio come il giugno americano.
Altro caso clamoroso, anzi più clamoroso è quello di The Way back. Ad onor del vero, anche la distribuzione mondiale non è stata affatto generosa con questo film, ma ovviamente quando c'è da prendere il peggio da tutto il mondo, l'Italia è sempre in prima fila e si è giustamente adeguata. Il ritardo in questo caso è stato di oltre due anni. Nemmeno il sottoscritto sapeva, fino ad un annetto fa, che Peter Weir aveva fatto un nuovo film. Mancando dai tempi di
Master & Commander (cioè nove anni fa) una persona si abitua alle assenze, peggio si dimentica.
Quello che stupisce è che il distributore italiano è la 01 (leggi Rai cinema). Ora da spettatore medio, in quel ginepraio che è la distribuzione italiana, i massimi attori del mercato della distribuzione sono appunto Rai e Medusa. Fuori da essi sei fregato o al massimo ti becchi le briciole. Avendo nel proprio listino un film di Peter Weir uscito due anni prima, perché è occorso tutto questo tempo per la messa in onda nelle sale? Per far gridare di nuovo al miracolo? Eppure a questi signori non credo che abbiano scarsità di sale. Se la collocazione a giugno in genere è pessima figuriamoci a The Way back uscito nel mese di luglio.
Limitiamoci solo a questi due casi. Il discorso si può allargare a dismisura: da film italiani non distribuiti o mal distribuiti, ai generi ormai scomparsi dalle sale italiane (horror, thriller, tranne la commedia, per carità guai a toccarla!), perfino a pellicole straniere distribuite nel nostro paese, quando all'estero sono già in blu-ray edizione de luxe.
I perchè rimangono sempre inalterati. Da anni.
Firmato
Un umile spettatore medio.
PS: non ho mai menzionato Internet ben conscio che dal ginepraio saremmo passati allo scoperchiare il Vaso di Pandora.
Dopotutto la pirateria è un reato.
L'istigazione a delinquere, pure.
Pubblicato il 16/10/2012 08:36:39 da
kowalsky
Provate a immaginare una donna o un uomo bellissimi, 1.90 di altezza, corporatura slanciata e longilinea, oppure possente e prestante nella sua fisicità, la/lo osservate con ammirazione, invidia, desiderio, poi improvvisamente notate qualcosa che non va... vi accorgete magari che indossa un paio di scarpe scadenti o che la gonna o i pantaloni sono macchiati o sdruciti, o ancora si nota il segno di una cucitura dove prima c'era uno strappo. Ebbene, è un po' quello che accade ai talenti del cinema quando latitano le idee, o vivono di rendita. Primo, honoris causa, può essere
Woody Allen, l'autore più autoreverenziale del cinema, che non a caso si è concesso a un film-biografia di recente, del tipo "io penso... e vi spiego quello che penso". Da bignami-spiritual guide di
Diane Keaton e
Mia Farrow - sue ex-compagne - a talent-scout in diverse sceneggiature dove scova negli altri; poco importa se pugili suonati o pornostars, il talento che la sua corporatura gracile non è mai riuscita a concretizzare. Ma dal formidabile “
Broadway Danny Rose” di qualche lustro fa, siamo arrivati a un improbabile dilettante allo sbaraglio che canta romanze Verdiane sotto la doccia, come nell'ineffabile e tremendo "
To Rome With Love". Tra tante legittime stroncature, c'è anche chi ha trovato sincero il (cattivo) gusto del
souvenir d'Italie di Allen, collocandolo nell'ottica di una modernità tutto sommato innocua e indolore. E' un po' la solita storia di chi tra citazioni decorose del cinema classico americano e fissazioni Felliniane, trova tardivamente il modo meno nobile di citare lo Sceicco Bianco del Maestro, oramai totalmente vinto e sconfitto dal suo stesso antico amore... bene ha fatto
Sydney Pollack, negli ultimi anni della sua carriera, a riciclarsi come attore. Proprio con Woody Allen ("
Mariti e Mogli") e persino con
Kubrick, a cui si deve un ruolo da entertainment talmente odioso che rimarrà impresso nella memoria più dei suoi film da regista ("
Eyes Wide Shut"). Perché, volenti o nolenti, non trovano più spazio nei ricordi capolavori come "
Non si uccidono così anche i cavalli?", "
Come eravamo" o "
Il cavaliere elettrico" ma nella nostra memoria resta l'onta miserevole di quel "
Destini Incrociati" che appartiene di fatto alla Lista Nera dei peggiori soggetti che Hollywood abbia mai scritto, una via di mezzo pietosa tra “
Love story” e “
Che cosa è successo tra mio padre e tua madre?” di
Billy Wilder, scritto però da un commerciante di hamburger.
La palma del peggior declino nella carriera di un regista va però a
John Schlesinger, di cui non finiremo mai di spellarci le mani di applausi per le meravigliose storie che ha raccontato fino all'inizio degli anni '80. Qualcosa comincia a scricchiolare con “
Yankees”, ma si fa perdonare una buona fotografia e persino una certa retorica autoriale. Il peggio viene dopo. Tutto sommato “
Il gioco del falco” è stato un visto poco visto e visto male, troppo controbilanciato tra pretese d'autore ed effettismo da box-office, comunque realizzato con innegabile mestiere. "
The innocent", invece, è proprio un'accozzaglia spionistica senza capo né coda che nemmeno il
grand-guignol (la scena del cadavere fatto a pezzi) salva dal fallimento commerciale e artistico. Come se non bastasse, il vecchio John, che nel frattempo ha comodamente mandato in pensione la sua proverbiale cattiveria e asperità, anziché se stesso, realizza “
Sai che c'è di nuovo?”, sorta di Canto del Cigno che farebbe rivoltare dalla tomba nientemeno che Tchaikovskji. In tempi dove era così
cool rappresentare i gay in tutto il loro
coming out (e
Rupert Everett l'aveva fatto) cosa c'è di meglio - anzi di peggio - di un attore effeminato che solletica i pruriti morali facendo coppia fissa con la signora Ciccone, in arte M.?
Puoi attraversare una vita senza speranze, e chiederti come mai
Terrence Malick abbia usato gli scarti del meraviglioso “
The tree of life” per fare un nuovo film, ma “
To the wonder” non è spiaciuto a tutti. C'è da chiedersi solo se questa utopistica fede nella bellezza che vacilla riuscirà mai a trovare una risposta, o dovremmo attendere un'ulteriore intervista all'autore più segregato e misterioso del mondo per fare chiarezza. Di autori dal grande passato che si sono trovati in crisi col loro presente il cinema è pieno, pensiamo a
De Sica prima della morte, a "
Lo chiameremo Andrea" e soprattutto "
Il viaggio", ultima tristissima fatica che riesce a rovinare 17 splendide pagine di una magnifica novella di Pirandello; ma non si riesce a perdonare nemmeno il Leone alla carriera,
Francesco Rosi, che prima di un passabile ma freddo adattamento di Primo Levi, "
La tregua", ha avuto l'incoscienza di seminare l'incauto terrore negli spettatori grazie a Gabriel Garcia Marquez e al suo "
Cronaca di una morte annunciata". E' davvero una morte annunciata per il regista, quella di un film che nei primi piani ricorda tremendamente (è stato citato da loro?) lo spot di
Dolce&Gabbana per la pubblicità di un profumo in una dimensione mediterranea fatta di eros e passioni frenate. Dopo l'appassionante "
Nuovomondo", ormai di antica memoria, si fatica a riconoscere l'
Emanuele Crialese che tanta attenzione aveva destato tra i critici nel suo film più recente, benedetto da un Santino prefabbricato che sembra non disdegnare nemmeno
Ermanno Olmi nel suo "
Villaggio di cartone". Modesto film che nemmeno la tracotante rigidità dell'autore riesce a trasformare in autentica poesia. La svolta pirotecnica ed europea di
Abbas Kiarostami ha sicuramente affascinato qualche cinefilo appassionato di
Rohmer e
Rivette nel suo "
Copia conforme", ma non esattamente chi gli aveva aperto il cuore con "
Dov'è la casa del mio amico?", "
Sotto gli ulivi", o "
Il sapore della ciliegia". Cercando di sottrarsi alla dimensione minimalista (e poco europea, ma chi l'ha detto? Dicono niente i nomi di
Bresson e
Antonioni?) del suo cinema iraniano, il regista di Teheran gira in Francia il suo film più spocchioso, profumato non più dai panorami brulli dell'ex-Persia ma da qualche lavanda acquistata nel centro di Grasse, in Provenza. Il risultato è imbarazzante nella sua inutilità: dialoghi estenuanti sul senso della vita si prolungano fino alla fine, dandoci per questa ragione l'immagine di quel tipo di cinema che piace troppo alla critica d'essai ma che per altre ragioni abbiamo sempre odiato nel linguaggio tipicamente europeo. Bisogna sperare che Allen torni a New York e Kiarostami in Iran (sembra l'abbia già fatto)? Altrimenti la loro corsa contro il tempo perderà di sicuro, e del resto i misfatti restano incustoditi nella memoria, come perenni vergogne da dimenticare, sollevando tonnellate di polvere sui capolavori che ci hanno dimenticato.
Mark Cousins è un genio. Mark Cousins è un pazzo. Mark Cousins è l’autore di un documentario di 15 ore sulla storia del cinema, che si chiama “The Story of film”: prodotto per il canale televisivo More4, presentato al Toronto Film Festival, è ora in alcune sale italiane, distribuito dalla Bim (Dio li benedica), e il 4 dicembre prossimo sarà disponibile in dvd. Un cofanetto di 5 dvd che non vedo l’ora di acquistare.
Vedere il film al cinema è un po’ complicato. Come si fa a distribuire un film di 15 episodi? Un po’ come Heimat, lo si proietta a puntate. Siccome ogni episodio dura un’ora, il film è stato suddiviso in sette parti (sì, l’ultima dura 3 ore), ciascuna delle quali esce la settimana successiva alla precedente. Il problema è che il film viene proiettato soltanto una sera alla settimana, in pochissime sale di nove città italiane (nella maggior parte delle città la prima parte, comprendente i primi 2 episodi, è stata proiettata martedì 25 settembre scorso. A Firenze la proiezione è stata anticipata di una settimana; a Mestre slittata di una).
Ora vi starete chiedendo, perché non si sia pensato bene di distribuire direttamente in qualche canale televisivo un’opera del genere. Al di là degli ovvi motivi di ordine finanziario (“The story of film” evidentemente non interessava a nessun canale televisivo nostrano…), le ragioni sono qualitative. Il lavoro di Mark Cousins è di valore superiore.
E’ per questo che attendo con impazienza l’uscita del cofanetto.
Ho potuto vedere due episodi in anteprima, ed è stato un trip. O, se preferite, un orgasmo cinefilo.
Mark Cousins reinventa la storia del cinema tradizionale, guidato da due parole chiave: innovazione e ribellione. Per raccontare il nuovo cinema americano degli anni ’70, per dire, non comincia dove ogni manuale di storia del cinema comincerebbe – cioè da Coppola, da Scorsese, dalla factory di Corman o da “
Gangster Story”. I mostri sacri del New American Cinema li lascia per ultimi, e non ci fa vedere “
Il Padrino”: semmai “
Taxi driver”. Ma lui inizia dalla satira (da “
MASH” e “
Comma 22”), prosegue con la contestazione e con il cinema dei neri d’America (appassionandoci a Charles Burnett e al suo “Killer of sheep”). Infine si dedica a un’intervista a Paul Schrader, con il quale discute – fra le altre cose – della citazione con cui “
American gigolo” omaggia nel finale “
Pickpocket” di Bresson…
A proposito delle interviste: c’è da dire che il documentario di Mark Cousins in questo è molto lontano dall’impianto dei documentari tradizionali. Poche le interviste, molte le scene girate direttamente da Cousins stesso sui luoghi del cinema (decine di paesi esplorati, in sei continenti), adattando il proprio stile a quello del cinema e dell’epoca di cui sta parlando, per suggerire anche attraverso le immagini – di grande sensibilità, peraltro – e rendere più agevole la comprensione del discorso che, di volta in volta, conduce.
A parte le scene girate direttamente da Cousins, però, a farla da padrone è il cinema stesso, attraverso le circa mille scene di film scelte da Cousins. “The story of film” è un condensato di storia del cinema che si mostra: se per Hitchkock il cinema era la vita senza i momenti noiosi, il monumento eretto da Cousins alla storia del cinema è una sorta di trailer di 15 ore del cinema tutto, di tutti i tempi e di tutte le latitudini. Senza i momenti noiosi.
In più, come dice Cousins, “parlare con Baz Luhrmann della scena dell’acquario in Romeo + Giulietta e poi montare la sua voce sulla sequenza dell’acquario è qualcosa di molto più intimo e vicino al film, che non limitarsi a scrivere di quella scena”.
La cosa più bella di tutto ciò è l’equilibrio formidabile tra capacità di “insegnamento” e capacità di coinvolgimento. Durante i due episodi che ho visto, non ho avuto un momento di noia, un sussulto di impazienza o una fase di smarrimento. Quando Cousins ti parla di film che ami o che comunque conosci, ti sollecita nuove suggestioni e ti apre una prospettiva, uno sguardo ulteriore. Quando Cousins si addentra in territori a te poco noti o del tutto sconosciuti, si lascia seguire perfettamente, pur con un ritmo sempre incalzante (e mai prolisso). Quel che ti rimane è la sensazione che, prima di aver avuto la fortuna di imbatterti in “The story of film”, conoscevi molto meno di quel che credevi, e, insieme a questa, la sensazione di avere di fronte un universo ancora inesplorato. E, per di più, con sottomano le mappe per orientarti, e i percorsi da seguire.
Affascinante.
Lo stile di Cousins va di pari passo alla sua strabordante cinefilia: appassionato, e allo stesso tempo lucido, è per lo più distante dall’accademia, incentrato com’è sui due pilastri portanti costituiti dalla “ribellione” e dall’ “innovazione” (che meraviglia il discorso sulla profondità di campo, nel quinto episodio!, con fior fior di scene che esemplificano quello che la voce narrante spiega, o per meglio dire scene nobilitate e rese trasparenti, nei loro valori formali, stilistici ed artistici, mentre la voce fuori campo te li illustra!).
Che altro ancora dire? In attesa di riparlarne a visione completa, qualche dato di produzione, che soddisfa la curiosità di chi, come me, si è chiesto come diavolo abbia fatto questo genio, questo pazzo nordirlandese di Belfast, a realizzare un lavoro simile. Cousins di persona è un ragazzo simpaticissimo, che assomiglia un po’ a Morrissey, dalle osservazioni acute e stimolanti, e dal ciuffo riccio, che sprizza da tutti i pori la sua passione per il cinema (all’intervista con la stampa si è presentato con una t-shirt con su scritto “cinephile”). Leggo le sue note biografiche: tutto è nato da un libro, “The story of film” appunto, risalente ai primi anni 2000, scritto di getto in undici mesi: un libro privo di troppi tecnicismi (e ci credo, visto che anche il film parla un linguaggio assai semplice e fruibile anche dai “non addetti ai lavori”), e destinato al grande pubblico. …Spero sia presto tradotto anche in Italia.
Nel 2005, a Cousins fu proposto di girare un documentario a partire dal suo libro: quello che inizialmente era già un ambizioso progetto della durata preventivata di tre ore, nel corso dei suoi oltre cinque anni di gestazione è lievitato a quello che vediamo adesso, ossia il primo documentario integrale che illustra la storia del cinema attraverso i film.
Delirante, forse, nella sua ambizione di concentrarsi “enciclopedicamente” sull’insieme, ma pur sempre qualcosa che - mi pare - non era stata ancora mai tentata da nessuno, sotto questa forma. E, quel che più conta, è un’operazione completamente riuscita. E se così è – e diavolo se lo sembra, dai due episodi che ho visto – lo è grazie non solo al talento e alla competenza, all’originale intelligenza del suo autore. Che saranno tante finché si vuole: ma, come dice proprio Cousins, il suo “è un atto d’amore per il cinema”.
Un atto d’amore che innamora.
PS: qui trovate la lista completa del migliaio di film che potrete vedere, guardando “The story of film”.
Ordinati per episodi.
Come abbiano fatto davvero con i copyright, non me lo chiedete.
Quando in Italia non c’era ancora sentore di
Halloween, neanche lontanamente intendo, la maggior parte della gente non ne conosceva l’esistenza. Non era stata ancora forse neanche pensata l’omonima saga horror hollywoodiana, che in seguito invase l’Italia con successo sempre crescente, rendendo popolare la festività celtica.
Beh, dicevo, quando non esistevano feste horror con zucche, teschi, streghe, “
dolcetto o scherzetto”, la festività di
Ognissanti qui da noi era una “cosa” seria, serissima: niente giochi, risate ancor meno. Era il momento della ricorrenza più visceralmente triste dell’anno.
I giorni a cavallo dell’ 1 Novembre si trascorrevano in giro per cimiteri: tutti i camposanti in cui ci fosse la salma di un parente, di un amico o conoscente erano visitati; si organizzavano i tour sepolcrali fin dall’estate, perché spesso ci si doveva spostare in macchina o in treno per raggiungere i cimiteri più lontani, anche in altre regioni, lontane dalla propria.
Quando, dunque, in Italia non era ancora stata importata la festa di
Halloween, si pensi per un momento a quale tormento dovevano sottostare quei bambini sfigati, nati a cavallo di quei giorni: trascorrere il proprio compleanno a zonzo per cimiteri con i propri genitori e parenti; atteggiamento forzatamente compunto ed espressione contrita e malinconica. E non c’era speranza neppure per i giorni successivi, l’impronta malinconica s’imprimeva nel profondo e lo sforzo amorevole di mamma e papà per creare l’opportuna atmosfera di compleanno restava comunque un tentativo vano. Perché da bambini il concetto di morte è innaturale, quasi irreale, ma l’afflizione che lo sottintende la si percepisce intensamente. Da bambini, purtroppo, non si possiede ancora l’ironia come strumento di protezione nei confronti del “brutto” della vita.
Tuttavia, io bambina mi consolavo guardando tutto ciò che mamma
Rai ci propinava e proprio nella stagione suddetta, una sorprendente rivelazione mi giunse con la visione di un “
vecchio documento RAI” , trasmesso all’interno di qualche trasmissione d’archivio.
Il filmato riprendeva un’ intervista al “Principe” Antonio De Curtis, in arte
TOTÒ, che oltre essere attore cinematografico e teatrale indimenticabile, fu anche autore di poesie lievi, ironiche.
Nel filmato d’archivio, l’attore, al termine dell’intervista, declamò la sua più celebre poesia: “
'A livella” , quasi un breve testo teatrale d’autentica napoletanità, semplice scritto che parla della morte in modo umoristico e senza paura.
Il testo racconta di un signore che, suo malgrado, alla festività dei Santi-Morti, resta rinchiuso nel cimitero durante la doverosa visita. Assiste ad un grottesco colloquio fra due fantasmi: un marchese e un netturbino. Il marchese si lamenta della vicinanza delle due tombe, poiché non è stata rispettata la differenza di ceto; il netturbino, alquanto scocciato, gli risponde che, indipendentemente da ciò che si era in vita, col sopraggiungere della morte si diventa tutti uguali.
La morte sublimata a “LIVELLA” la cui forza rende tutti uguali. La morte come principio di uguaglianza universalmente realizzato.
“
A morte ‘o ssaje ched”è? …è una livella”
Già allora adoravo Totò, di cui non perdevo un film; naturalmente rimasi piacevolmente sorpresa nel sentire “canzonare” così lievemente un mio fardello e proprio nel periodo mesto del compleanno!
Che consolazione sentire parlare della morte senza timore, in modo leggero fino a sfiorare l’umorismo: una liberazione, finalmente qualcuno aveva sdrammatizzato!
Ero piccola e non capivo tutto del testo in dialetto napoletano, ma l’eloquente mimica di Totò è d’immediata comprensione; benché non possedessi ancora la capacità ironica di afferrare ogni sfumatura del messaggio dell’autore-attore, ne colsi tuttavia la sostanza e sorrisi compiaciuta.
Pubblicato il 11/10/2012 08:44:45 da
Zero00
Il 23 Novembre del 1963 la rete televisiva britannica BBC trasmise il primo episodio di Doctor Who. A conti fatti questa serie compie 33 anni (dal 1963 al 1989 e dal 2005 ad oggi) proprio nel 2012 e il 33 è da sempre un numero particolare, fortemente simbolico.
Opera sci-fi diretta ad un pubblico under 18, Doctor Who è forse il serial più longevo della storia della televisione. Ventisei stagioni della serie classica, un film per la tv e sei stagioni della nuova serie dal 2005, per un totale di più di 700 episodi (e una manciata di speciali), narra le avventure del Dottore, alieno proveniente dal pianeta Gallifrey e ultimo Signore del Tempo, sopravvissuto alla distruzione del suo mondo e della sua civiltà. Sì, signore del tempo, perchè i gallifreiani sono capaci di muoversi nello spazio e nel tempo viaggiando su enormi navi spaziali chiamate TARDIS (Time And Relative Dimension(s) In Space). Apparentemente del tutto simili agli umani, hanno in realtà due cuori, doppio sistema circolatorio, un sistema respiratorio che gli permette di restare senz'aria e una temperatura corporea di 15-16 gradi Celsius. Hanno inoltre la capacità telepatiche e quella importantissima di guarire più velocemente e di rigenerare il proprio corpo in caso di morte violenta o naturale per ben 12 volte, avendo quindi a loro disposizione 13 vite, cosa che li rende virtualmente immortali.
Il Dottore ha più di novecento anni, è un genio ed è l'ultimo della sua specie; viaggia per le galassie su una cabina telefonica blu della polizia inglese. Odia la violenza ma è capace di ira funesta, è in grado di risolvere qualsiasi situazione e il suo nome è temuto in tutto l'universo dai suoi nemici. Nel corso dei suoi viaggi è stato accompagnato da uno o più "Companions", terrestri che per un breve periodo lo hanno affiancato nelle sue avventure, rivelandosi di fondamentale importanza e a volte salvandogli persino la vita.
Una serie così lunga e complessa che sarebbe impossibile sintetizzarla in poche righe. Che poi sarebbe anche deleterio: Doctor Who va guardato, goduto e amato. Perchè fa sognare, perchè apre le porte dell'universo e di quel mondo fanciullesco che ogniuno ha dentro di se. Quante volte guardano le stelle ci siamo chiesti cosa ci fosse lassù? In un certo senso qui ci viene data una risposta: l'unico modo per saperlo sarebbe andarci, lassù, e vedere con i propri occhi.
Nonostante sia stata concepita come serie under 18, Doctor Who è tutt'altro che infantile, alternando paura, ironia, comicità e azione ma anche momenti di vera profondità psicologica e filosofica. Sfaccettata come il suo protagonista, è in grado di far ridere, piangere e sognare, persino di aver paura. Cosa ci può essere di più bello di qualcosa che racchiude questi sentimenti tutti insieme?
Amore e guerra, malinconia e riso, noi soffriamo e gioiamo durante e dopo la visione, ci esaltiamo per i colpi di genio di un personaggio unico nella propria molteplicità, per le frasi ad effetto e i giochi di parole. Ma basta anche solo uno sguardo, un'avvenimento rivissuto all'ombra del fantasy e noi diveniamo i companions finali del Dottore, realizzando così quell'antico sogno di trovare qualcuno che ci prenda e ci porti via per vivere avventure uniche e straordinarie, anche se solo con la fantasia, anche se solo per qualche istante.
Questo autunno è partita la Settima Stagione, che presenterà novità a livello di comprimari. Per ora sono stati trasmessi i primi cinque episodi delle nuove avventure dell'Undicesimo Dottore, mentre per i restanti dovremo aspettare il 2013. Ci sarà spazio per una nuova companion interpretata da Jenna-Louise Coleman, per lutti e nuovi/vecchi nemici. E la domanda a cui bisognerà rispondere sarà una e una sola: Dottor chi?